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Egitto, indietro non si torna

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di P. Cioffi*
La situazione in Egitto da quando la maggioranza islamista ha preso il potere sotto la guida di Mohammed Morsi è ancora difficile da decifrare. Ci sono segnali opposti ed è ancora prematuro esprimere un giudizio accurato su un governo che si è trovato in mano un paese da ricostruire, con poche risorse e pressanti aspettative.

In questo contesto, ancora molto fluido, le chiese cristiane, in particolare quella ortodossa (maggioritaria), sembrano ancora prudentemente orientate ad attendere e ad interpretare – secondo una strategia consolidata di diffidenze profondamente celate e rapporti formali di apparente cordialità – i segnali che arrivano dal mondo politico.

Il punto di partenza per decifrare il percorso del governo è il 19 di agosto quando, a sorpresa, il presidente Morsi ha dichiarato le dimissioni di Mohamed Tantawi, capo dell’esercito e ministro della difesa, sostituendolo con un ufficiale più giovane, Abdel Fattah al-Sisi.

L’occasione è stata offerta dalla strage di militari al confine del Sinai, il 5 agosto. Durante l’interruzione del digiuno del Ramadan (iftar), un avamposto delle forze armate è stato attaccato e 16 militari uccisi. La percezione pubblica d’umiliazione e l’evidente impreparazione dell’esercito hanno prodotto un tacito consenso popolare che ha reso legittima la decisione, apparentemente rischiosa, di estromettere Tantawi. L’impatto è stato più di carattere simbolico perché ha spostato la percezione di chi ha il potere. Questo ha trovato ulteriore conferma nell’assenza di reazioni violente e vendette interne, per lo meno finora.

Morsi (eletto presidente lo scorso giugno, quale candidato dei Fratelli Musulmani) ha iniziato il suo mandato chiuso in una stretta pericolosissima creata dal governo militare. L’intenzione era di creare condizioni d’ingovernabilità e conseguentemente di malcontento popolare al punto da portare ancora la gente in piazza e azzerare di nuovo i conti. Morsi, presidente di un paese senza costituzione e senza parlamento, ha giurato fedeltà al mandato nelle mani di Tantawi, rappresentante del vecchio potere, arcinemico dei Fratelli Musulmani e del Partito della libertà e giustizia (Fjp). Pochi giorni dopo però Morsi ha esautorato Tantawi. Segnali doppi di un governo che naviga a vista e sterza inaspettatamente per correggere la rotta (e magari confondere le percezioni) in una strategia di doppiezza ben collaudata.

Un altro esempio viene da alcune vicende legate alla libertà di stampa. Per un partito a “pensiero unico” è un test obbligato di controllo e d’affidabilità democratica. I primi passi sono andati nella direzione pronosticabile: la censura. E così il partito che ha la parola “libertà” nel suo titolo ha fatto incarcerare Islam Afifi, direttore di un giornale d’opposizione, al Dustour, e ne ha ritirato alcune pubblicazioni. L’accusa era di vilipendio del capo dello stato. Inoltre un canale televisivo privato è stato chiuso perché ha messo in onda un programma diretto da Tawfik Okash, presentatore di un talk show televisivo anti-governativo che ha incitato all’uso della violenza contro Morsi.

Queste “rappresaglie” governative non sono del tutto ingiustificate nella cultura orientale, dove l’onore è potente quanto il denaro. Di censura comunque sempre si è trattato. Ma, alla vigilia di un’importante manifestazione antigovernativa, si rileva che il primo atto legislativo del presidente è quello di cancellare con un decreto la legge antecedente che permetteva la detenzione preventiva dei giornalisti accusati di offese al potere. Così Afifi viene rilasciato dopo poche ore. Doppiezza casuale o calcolo strategico?

Quali sono state le mosse di Morsi per riacquistare status e potere? Le stesse del governo precedente. Il 18 di giugno, pochi giorni prima della presa di potere, il governo militare di transizione (Scaf), fece un emendamento alla costituzione limitando i poteri del futuro presidente. Ebbene, il 12 agosto Morsi con nuovo emendamento alla costituzione annulla l’emendamento dello Scaf e conferisce a se stesso pieni poteri legislativi fino alle nuove elezioni del parlamento, sciolto dalla Corte Suprema il 14 di giugno. Quello che sembrava essere uno svantaggio per Morsi, la mancanza di parlamento e costituzione, di fatto si è trasformato in un’opportunità di libero movimento, anche se di fatto autarchico. La prima conclusione certa è che chi sta governando ha dimostrato una perspicacia politica e una moderazione che finora non sono state riconosciute dagli avversari politici.

Flop in piazza

La seconda data da considerare è il 24 agosto, appuntamento fissato per una manifestazione antigovernativa. Dopo le recenti mosse del governo ci si doveva aspettare un grande dimostrazione di forza dai gruppi d’opposizione, tra questi i militari, i fedeli di Mubarak, i musulmani moderati e i cristiani stessi. Invece il 24 è stato un “flop”: solo poche centinaia di manifestanti. Tuttavia, pur trattandosi certamente di una vittoria per il governo, quest’ultimo non è ancora in grado di superare la grande barriera di diffidenza e sospetto dei suoi diretti interlocutori politici, tra questi i cristiani. E questo è un governo che sembra fortemente motivato a “conquistare” la fiducia sia interna che esterna. Ma si tratta di atti cosmetici e d’apparenza oppure di un sincero quanto sorprendente spirito democratico?

La sfida dei Fratelli Musulmani non è solo di vincere le diffidenze esterne nei loro confronti, ma anche di tenere sotto controllo le pulsioni fanatiche di molti dei propri membri che ne alimentano un immagine da cui il governo si vuole distanziare. Un esempio è la recente pubblicazione su un giornale popolare, al-Fair, di un testo che incitava ad un genocidio contro i cristiani. Prontamente i Fratelli Musulmani hanno definito questo testo una provocazione per danneggiare l’immagine del loro partito, l’Fjp, agli occhi dei paesi occidentali.

Il 2012 è iniziato con un crescente numero di scontri tra cristiani e musulmani fondamentalisti. Spesso per ragioni banali, che tuttavia hanno portato alla fuga e all’esilio di non poche famiglie copte. Questo è iniziato nel villaggio di Amreyyah in gennaio ed è continuato fino ad oggi con i gravi scontro a Dahshour e la conseguente fuga di 120 famiglie dalle loro case. Il governo sostiene che questi episodi non rappresentano i rapporti tra musulmani e cristiani, che sono buoni. Ma questa non è la percezione della base cristiana che vive spesso nell’angoscia di rappresaglie di natura religiosa.

Questo muro di paura e diffidenza può essere solo superato con delle leggi che colpiscano ogni forma di discriminazione religiosa e che avviino il paese verso un’identità laica e civile. Questo include il cambiamento del secondo articolo della costituzione che dichiara l’islam la fonte principale della legislazione (shari’a). Ma chiedere questo ad un governo ancorato gelosamente alla propria appartenenza islamica e in un paese al 90% musulmano è un atto di lungimiranza politica apparentemente fuori dalla portata di questo esecutivo. Il sospetto di una strategia che miri all’islamizzazione del paese è giustificata e il crescente numero di cristiani in fuga ne è la prova.

I cristiani e la politica
La strategia dell’opposizione, in particolare dei cristiani, non può più essere quella del silenzio pubblico e delle negoziazioni private. Deve prendere posizione nell’arena del dibattito politico, in maniera civile e trasversale. Il voto dei cristiani, circa 4 milioni, ha un grande potenziale e ha avuto una grande opportunità nelle elezioni scorse. Di fronte al vuoto di potere nel dopo Mubarak si erano creati nuovi scenari politici che offrivano molto di più di un salto nel passato. Tuttavia per riuscire a cambiare gli equilibri del potere sarebbe stato necessario accettare alleanze strategiche con identità politiche estranee alle proprie. La lunga storia di autoesclusione dalla vita politica del paese se non per barattare i propri diritti civili in cambio di una sicurezza che spesso la storia ha comprovato effimera, ha creato una mentalità da ghetto difficile da scalfire.

Se si vuole un paese in cui cristiani e musulmani fondino la convivenza sui principi secolari, le chiese cristiane devono ispirare la partecipazione dei fedeli alla vita politica del paese senza condizionarne le scelte. I segnali di cambiamento ci sono. Recentemente 13 organizzazioni copte hanno deciso di creare un corpo politico libero da costrizioni ecclesiali, in altre parole, libero. L’intenzione è di unire tutte le forze cristiane di fronte alle sfide politiche presenti. Tra le varie rappresentanze ci sono l’Unione giovanile di Maspero (quest’ultimo il luogo di una strage di cristiani durante i tempi della rivoluzione), il centro per i diritti umani Kalimah e il Centro egiziano per le minoranze. Un altro gruppo di attivisti copti ha fondato in Egitto una nuova formazione politica di ispirazione religiosa che si chiama “Fratelli Cristiani”. Fondatore è un avvocato copto Mamdouh Nakhla, direttore del Centro per i diritti umani “al-Kalima” del Cairo. In un’intervista rilasciata recentemente afferma che «il nuovo gruppo seguirà un approccio completamente liberale e secolare. Non saremo un gruppo religioso, in nessuna forma né misura».

Il paese, pur navigando a vista, di fatto una certezza ce l’ha: non può più tornare indietro. Le cose inevitabilmente cambieranno. Chiunque investe nel passato politico e religioso del paese rimarrà tagliato fuori dalla storia, non dai fondamentalisti musulmani.

*Fonte: www.nigrizia.it


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