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C’era una volta la TV, “una, e divisibile”…

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E’ un libro importante, e per tante ragioni, “Una e divisibile”, il libro che Giulia Guazzaloca ha dedicato alla RAI, e ai partiti negli anni del monopolio pubblico: quel ventennio che comincia nel 1954 e si conclude nel 1975 (Le Monnier editore, collana “Quaderni di Storia”,  diretta da Fulvio Cammarano; pagg.267, 21 euro).

Giulia Guazzaloca è ricercatrice presso l’Università di Bologna e insegna storia contemporanea e storia delle società nel XX secolo alla facoltà di Scienze Politiche “Roberto Ruffilli” di Forli’. Nonostante la giovane età puo’ già esibire un invidiabile curriculum: redattrice della autorevole “Ricerche di Storia Politica”, collaboratrice del Centro Studi per il Progetto Europeo di Bologna; e una quantità impressionante di lavori: da “Fine secolo. Gli intellettuali italiani e inglesi e la crisi tra Otto e Novecento”; a “Storia contemporanea. Dal XIX al XXI secolo”; e ancora: “Governare la televisione? Politica e TV in Europa negli anni Cinquanta e Sessanta”; e “Monarchia e legittimazione politica in Europa tra Otto e Novecento”.

Questo suo “Una e divisibile”, per l’appunto è un libro che dello storico ha il rigore e l’impianto metodologico, del ricercatore la puntigliosa precisione e accuratezza delle fonti, uniti alla non comune capacità espositiva. Cosicchè il libro è divulgativo e insieme opera scientifica, raro binomio, di questi tempi.
Libro importante, s’è detto. Ricostruisce fatti e situazioni che il tempo scolora, di cui si rischia di perdere la memoria. Due i filoni di indagine affrontati da Guazzaloca: “…I modi, i tempi e le strade che portarono le forze politiche italiane a comprendere le straordinarie potenzialità dei mezzi di comunicazione audiovisivi e, in un secondo momento, a cercare di servirsene per i propri fini…l’altro interrogativo concerne invece la sfera politico-istituzionale e si puo’ riassumere in questi termini: chi, con quali mezzi e quali strategie ha governato l’azienda radiotelevisiva di Stato prima della grande cesura avvenuta a metà degli anni Settanta con la legge di riforma e l’avvento delle TV private?”.

Le straordinarie potenzialità del mezzo audiovisivo erano state perfettamente comprese – e adeguatamente sfruttate – dai dittatori: è impressionante constatare la lungimiranza di un Mussolini che, dovendo rilasciare un’intervista a un grande network americano, lui che in inglese non sapeva dire nè buongiono nè buona sera, impara letteralmente a memoria, e da provetto attore le recita, le risposte da dare il lingua al suo intervistatore; aveva tutto ben compreso anche Hitler, che non a caso, per esempio, si avvale per la sua macchina del consenso di una grandissima regista, Leni Riefenstahl; lo stesso discorso puo’ esser fatto con Stalin, ne fanno fede decine di documentari, straordinari per la loro fattura e cura dei particolari.

Le democrazie ci sono arrivate tardi; e piu’ di tutti in ritardo, le forze progressiste in Italia. Fino agli anni Settanta le sinistre italiane hanno guardato con diffidenza alla televisione; storica la cantonata di un Ugo La Malfa, che fino alla fine ha condotto una sua battaglia contro l’introduzione del “colore” perchè altre erano le urgenze e impellenze; e fa senz’altro impressione in vero e proprio anatema scagiato da don Lorenzo Milani, “ripescato” nelle sue “Esperienze pastorali”: “…i mass media…istrumenti di ateismo attivo”, un tale abominio che per paradosso si auspicava la totale assenza di censura, perchè il tal modo “qualche spudorata schiettezza facesse sobbalzare i preti dai loro pacifici seggioloni…”. Fanno peraltro pensare gli attacchi sferrati da Ivano Cipriani dalle pagine di “Rinascita”, il settimanale fondato da Palmiro Togliatti, contro i programmi giornalistici “Ventt’anni di Repubblica” (curato da Hombert Bianchi), e “Prima Pagina” (curati da Furio Colombo e Sergio Zavoli).

Insomma: mentre la Democrazia Cristiana aveva ben compreso che straordinaria macchina di formazione del consenso poteva costituire la televisione, la sinistra si presentava impreparata all’appuntamento, presa e distratta da altro. E si torna qui al libro di Giulia Guazzaloca: che con il suo lavoro, frutto di mille pazienti ricerche d’archivio e certosine analisi di documenti, dimostra come la DC, in questo, avesse la vista piu’ acuta, lungimirante. Da una parte una lotta senza esclusione di colpi per impossessarsi del “cuore” dell’ente (interessantissima al riguardo, la minuziosa descrizione della lotta “interna” tra la fazione incarnata dal “clericale” Filiberto Guala e il fanfaniano Ettore Bernabei, duello che si risolve a favore di quest’ultimo); dall’altra il perseguimento di un vero e proprio progetto pedagogico: una televisione, per dirla con il vero e proprio “dettato” impartito da papa Pio XII in una “esortazione” all’episcopato italiano a due giorni dall’inizio delle trasmissioni, di una televisione “messa al servizio dell’uomo per il suo perfezionamento…”, accorato appello affinchè “…si comprendesse la necessità di intraprendere opportune iniziative per far sentire la loro presenza in questo campo prima che sia troppo tardi…”.

E puntuale arriva l’indicazione politica, una lettera del 10 gennaio 1954, firmata da Fanfani, all’epoca presidente del Consiglio: “Si raccomanda zelo scrupoloso ed intelligenza aperta…”; perchè quello che occorre sono “informazioni vere, orientamenti costruttivi, svaghi sereni, per divenire uomini e cittadini migliori…io ho assolto il mio dovere di assicurare alla RAI TV un direttore probo e capace. Assolva Ella il Suo di dimostrare che il governo ha ben servito l’interesse pubblico”.

La firma era, come s’è detto, di Fanfani. Ma a riprova che quasi mai c’è qualcosa di nuovo sotto il sole, la stressa lettera potrebbe essere stata firmata da Berlusconi cinquant’anni dopo. Scopo e fini, gli stessi; e infatti, quando allora, come cinquant’anni dopo, accadrà un incidente di percorso, e alla direzione del telegiornale si troverà ad esser Enzo Biagi, colpevole della grave colpa di voler fare a meno delle cerimonie ufficiali, “ianugurazioni, mostre, tagli di nastri da parte dei politici…poi volle puntare sulla cronaca, compresa quella giudiziaria che fino a quel momento non aveva avuto molto spazio in tv”, gli si fa presto capire di essere la persona sbagliata nel posto sbagliato; undici mesi di direzione, poi le dimissioni. Del resto, anche allora l’anatema scagliato contro chi dissentiva, era il solito: “comunista”. Di televisione comunista si lamenta l’allora vice-presidente della RAI Italo De Feo in una lettera al presidente Aldo Sandulli (“…due terzi dei nostri curatori e consulenti previsti nei programmi sono comunisti o comunistoidi; l’altro terzo è formato da radicali e cattolici dissidenti”); anni prima era stato Mario Scelba a chiedere che il governo approvasse l’esclusione dalle trasmissioni RAI di “notizie relative a discorsi di esponenti comunisti e dalla rassegna stampa ogni accenno a l’Unità, richiesta che fu accolta all’unanimità; mentre Adone Zoli, nella sua veste di capo del governo aveva respinto la domanda di assergnare uno spazio radiotelevisivo ai partiti in vista delle elezioni, sostenendo che i comunisti avevano già le trasmissioni mandate in onda da “Radio Praga”.

Era la TV che secondo il comandamento di Pio XII non doveva “in nessuna maniera recare offesa o turbamnento a quell’aura di purezza e di riservatezza che deve circondare il focolare domestico”; che dovevano costituire “prezioso strumento di comunicazione sociale posto al servizio della crescita umana e civile della persona e della società per la diffusione della cultura e di conoscenza, di partecipazione socializzante”; e che doveva forgiare un paese, mettendolo tuttavia al riparo da fallaci miti, e in nome di “un alto ideale educativo, respingere tanto l’ottimismo edonistico del cosiddetto American way of life, quanto il modello di TV commerciale proveniente da oltreoceano…”.

Vero è che in quegli anni la televisione, assieme alle autostrade, fu l’artefice di quell’unità del paese che non si era compiuto; e va riconosciuto che in quegli anni gli italiani cominciarono a conoscere e “masticare” grazie ad eccellenti sceneggiati, “I promessi sposi” di Manzoni, e “l’Odissea” di Omero; la “Cittadella” di Cronin e “Il circolo Pickwick” di Dickens; “Il cappello del prete” di De Marchi, e “Il Mulino del Po” di Bacchelli; e per restare a piu’ frivole trasmissioni, a quel ventennio appartengono non solo i mitici “Lascia o raddoppia?”, ma anche impeccabili produzioni come “Studio Uno” e “Canzonissima”, eleganti non solo per via del bianco e nero, e di cui si ha nostalgia non solo per il tempo passato: erano anni di opprimente cappa ideologica si’, e ne pagarono cara Dario Fo, Franca Rame, Enzo Tortora, per dire di alcuni; c’era il dizionario dei termini vietati, come “membro”; e la satira era quella tranquilla e “autorizzata” alla Alighiero Noschese, costretto a chiedere ai suoi “bersagli” preventiva autorizzazione; ma erano gli anni anche, in cui competenze ed eccellenze venivano valorizzate. E come un golem, tuttavia, sfugge dalle mani (e dal controllo) di chi la dominava, se è vero (e Guazzaloca ne descrive il processo con accuratezza), la pesante sconfitta clerical-reazionaria costituita dalla vittoria dei NO al referendum che voleva abrogare la legge sul divorzio, anche della televisione è figlia.

Quella televisione che si voleva (e che in buona misura ha avuto) avesse un ruolo e una funzione pedagogica oggi è morta e sepolta, e naturalmente non se ne ha alcuna nostalgia. Pero’ quel che si ricava dalla lettura del libro di Giulia Guazzaloca è un’amara lezione. Quella TV era infatti espressione, con tutte le sue polemiche, i suoi conflitti, le sue lotte intestine, di un progetto culturale, di una visione; che si poteva avversare e non condividere, ma che esisteva, e animava i partiti: anche allora – non bisogna certo idealizzarli – macchine per la produzione del consenso e la conquista del potere. Ma con una carica e una tensione ideale, se non di tutti, da parte di molti, che oggi sembra smarrita; di quella carica si’, si ha nostalgia.

Il libro di Giulia Guazzaloca è importante per questo: scandaglia le radici del nostro presente. Senza indulgenze, con occhio clinico, di chi al microscopio esamina e documenta. Il virus di oggi è figlio di ieri. La malattia che è esplosa sembra una metastasi incurabile; ma forse conoscere come e perchè tutto macque, puo’ costituire ancora un valido antidoto. Chi non ha memoria è come non esistesse, come un viso senza rughe è una pialla senza alcun interesse.


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