Il 30 agosto avrebbe compiuto 52 anni. Li avrebbe trascorsi probabilmente in redazione a rispondere a centinaia di telefonate e mail. La sera l’avrebbe trascorsa con i figli e la nipote. Diventare nonna le sarebbe piaciuto. Non so se le sarebbero piaciute le Pussy Riot con loro concerto punk in una chiesa moscovita. Ma certo si sarebbe indignata per la condanna. E, a differenza di tanti di noi, invece di riflessioni ideologiche, avrebbe analizzato per filo e per segno (e ridicolizzato) la sentenza che ha condannato le tre ragazze a due anni di colonia penale e lavori forzati.
In questi giorni a Mosca rischiano un processo anche altri leader dell’opposizione, da Navalny a Udaltsov (dove gli sgherri putiniani sono arrivati a perquisire la società dell’opposizione). Anna, di perquisizioni e fermi di polizia ne aveva subiti parecchi. Non guidava l’opposizione, ma era – col suo lavoro di giornalisti – a tutti gli effetti una dissidente del regime putiniano.
Anna Politkovksaja non festeggerà coi figli (e nemmeno con la nipote che non ha fatto a tempo a conoscere e che è bellissima e porta il suo nome) il suo cinquantaduesimo compleanno. Il 7 ottobre di sei anni fa è stata infatti assassinata nell’ascensore di casa: cinque i colpi tutti a segno. Un killer davvero coraggioso contro una vittima indifesa e senza scorta. Malgrado minacce ed avvelenamenti, nessuna autorità aveva infatti pensato di fornire una scorta ad Anna. Chiunque sia passato da Mosca ne avrà invece notate a centinaia sfrecciare, a sirene spiegate, tra le trafficate vie della capitale. Scortano d’altronde i politici del regime, gli stessi che si sono guardati bene dall’andare al funerale della più grande giornalista russa degli ultimi anni (se ne dimenticarono anche i “politici” europei, salvo la rimarchevole eccezione del nostro Marco Pannella).
Per l’omicidio della Politkovskaja non si era d’altronde sollevato, contro il regime putiniano, quell’ondata di indignazione popolare e mondiale scattata per la vicenda delle Pussy Riot. Nemmeno la condanna dell’imprenditore Mikhail Khodorkovskij a una pena che viene allungata di lustro in lustro, solo per aver appoggiato forze politiche che si oppongono al partito-stato (Russia Unita), aveva smosso le coscienze. Nemmeno quelle dei suoi colleghi imprenditori russi o internazionali: business is business, d’altronde.
La Russia poi vendendoci il gas (che alimenta le nostre centrali, ma anche tanti nostri quotidiani) e non essendo gli Usa, ha sempre goduto di un certo occhio di riguardo.
Le Pussy Riot, con la loro sgangherata esibizione, hanno avuto il ruolo del bambino della fiaba di Andersen: quello che grida che il re è nudo. Grazie a quel grido si sono accorte di quel che sta accadendo in Russia le star della musica (anche Sting che poi, a suon di petrorubli, ha cantato per la sorella di Putin nella Sardegna, ormai colonizzata, come tante località marittime). A ruota è scattata la solidarietà dei fan e buoni ultimi anche i giornalisti hanno dovuto occuparsi di quelle tre ragazze diventate improvvisamente un caso internazionale. Altrimenti, la loro condanna sarebbe stata certo più pesante. In Russia in realtà pochi – salvo i militanti dell’opposizione – si sono schierati al fianco del gruppo punk e femminista: ma la tv ha svolto come sempre il suo ruolo di controllore sociale dipingendole come tre squinternate. Le balaclave colorate che indossavano (e indossano) sono invece diventate un simbolo di ribellione e di repressione, cui – non a caso – ha fatto riferimento Assange nel suo comizio dal balcone ecuadoriano.
Anna, quel simbolo, l’avrebbe certo apprezzato.
Questa sera (con appuntamento alle 19 in via Lazzaro Palazzi 7 a Milano) la ricorderemo in un aperitivo di Annaviva. Nel quale parleremo anche delle prossime iniziative per commemorarla e per ottenere la liberazione delle Pussy Riot. Vi aspettiamo.