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Uno sguardo al lavoro in Bangladesh: la catena di montaggio umana

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A Dhaka può capitare di entrare in una bettola di pochi metri quadri e trovare un cameriere incaricato di prendere l’ordine, un altro di preparare il tè, un altro con il compito di servirlo e un altro ancora con quello di ritirare la tazza usata. Una quinta persona (generalmente il Capo, nonché possibilmente l’unico che sappia scrivere) si occuperà  del conto e dell’incasso ed una sesta…  (solitamente la persona al gradino più basso della scala gerarchica di quell’esercizio commerciale) provvederà  ad aprire la porta per far uscire i clienti ed in seguito a lavare la tazza.

Un tale utilizzo delle risorse umane assume toni tra l’assurdo e il comico agli occhi di un visitatore occidentale, che sarà tentato di domandarsi se ad un certo punto apparirà pure un ulteriore garzone incaricato di bersi il suo tè.  Tale episodio di vita quotidiana rispecchia in modo paradigmatico il contesto lavorativo di quest’angolo del sudest asiatico, dove i concetti di efficienza, di compenso e di sicurezza sul posto di lavoro sono completamente reinventati in maniera a volte creativa, a volte profondamente drammatica.

Ogni incarico, indipendentemente dal fatto di trovarsi nei famosi cantieri dove si smantellano a mano navi colossali o dal barbiere, è sistematicamente situato in una scala gerarchica, secondo la quale ognuno sa a chi deve servilmente obbedire e a chi può impartire autorevolmente ordini. Nonostante l’avvento nel XIII secolo dell’Islam nel Bengala orientale, che avrebbe dovuto favorire il superamento del sistema delle caste e favorire la fratellanza tra le persone unite nella nuova credenza, la marcata differenziazione tra classi sociali e il maniacale riconoscimento delle gerarchie che caratterizza il Bangladesh attuale lascia capire che il retaggio delle caste è ancora consistente.

Chi viene da società dove le attività economiche sono molto sofisticate e tecnologizzate, rimane colpito dalla frammentazione  dei processi produttivi e dal conseguente vasto panorama di incarichi  manuali ultraspecifici, per noi inimmaginabili  sia per  tipologia che per la fatica  che spesso comportano.
Non si tratta solo di aprire una porta o lavare una tazza da tè, di far girare a mano una ruota panoramica al luna-park o di condurre un carretto-scuolabus in bici: in Bagladesh qualsiasi manufatto o prodotto finito racconta la storia di uomini, donne, bambine e bambini che adempiono le mansioni più diverse in varie parti del paese, spesso per salari inadeguati, non solo per gli standard occidentali, ma anche in relazione al costo della vita locale.

Quali storie dietro un edificio? Il settore edile attiva una serie di ondate migratorie stagionali interne per le quali nei mesi di scarsa attività agricola numerosi uomini e donne migrano dalle campagne ai principali centri urbani per vendere la propria manodopera a imprese di costruzione, spesso su base giornaliera e senza nemmeno la certezza di ricevere un salario a lavoro completato.

Questi operai pernottano nello scheletro dell’edificio in costruzione e lavorano più di dieci ore al giorno per un salario quotidiano di circa 350 taka (poco più di 3 euro, mentre un pasto da 3000 calorie costa circa 60 taka) in condizioni da medioevo. Le impalcature sono fatte di pali di bambù e i materiali sono issati a mano con carrucole e funi di juta: nello skyline di Dhaka, nonostante ogni duecento metri ci sia un edificio in costruzione, non si scorge neanche una gru. Figuriamoci se queste persone, che non hanno nemmeno le scarpe, sono dotate di casco o imbragatura.

Ma non c’e` solo chi lavora nei cantieri cittadini: bisogna tenere conto degli uomini e delle donne che estraggono sabbia e pietre dai fondali dei fiumi (chi la spala, chi la setaccia, chi la trasporta sulla testa), di quelli che fabbricano mattoni (chi fa l’impasto, chi lo mette nello stampo, chi li inforna…), di quelli che intrecciano le funi di yuta, di quelli che tagliano i lunghi pali di bambù usati come impalcature e quelli che li spingono, galleggianti, lungo i fiumi per trasportarli da un paese all’altro…

Quali storie dietro una maglietta, magari proprio quella che avete addosso? Quello tessile è il principale settore industriale del paese, di cui è secondo esportatore mondiale dopo la Cina. Pur considerando che i salari in questo settore sono i più bassi al mondo (il salario minimo ufficiale è stato fissato nel 2010 a 3000 taka al mese, 28 euro circa), bisogna riconoscere che il boom della produzione di abbigliamento a partire dagli anni ‘90 ha implicato una grande rivoluzione sociale. Il settore mobilita principalmente forza lavoro femminile e sconvolge il purdah, canone vigente in Bangladesh di segregazione dei sessi e conseguente reclusione della donna al focolare domestico, permettendo a molte ragazze (spesso minorenni e migranti dagli angoli più miseri del paese) di vivere per conto proprio (seppure in suburbi) ed essere economicamente indipendenti.

Quali storie dietro un gamberetto? Di solito quelle di contadini espropriati delle loro terre da grandi latifondisti che inondano di acqua salata quelle che una volta erano risaie, trasformandole in pozze insalubri. Qui le donne passano le loro giornate con l’acqua fino al petto trascinando grandi reti per catturare i crostacei e gli uomini portano manualmente nuova acqua salata dai vicini canali. C’e` poi chi si carica sulla testa le casse piene di gamberi, che sono caricate su un furgone pieno di ghiaccio e trasportate nei centri urbani. Il ghiaccio a sua volta è stato scalpellato a mano da blocchi giganti e trasportato in pezzi da due metri quadri su gocciolanti carretti trascinati da una bici…

Quando poi i gamberetti arrivano alla bettola di Dhaka, già conosciamo la trafila dei camerieri che se ne occuperà. E ricomincia il giro…

*l’autrice dell’articolo è antropologa e vive in Bangladesh


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