In un paese, nel quale un leader populista che cambia idea ogni giorno sulla scelta di candidarsi oppure no, senza volersi rassegnare a un giudizio popolare che lo ha ormai bollato in tutti i modi non solo per i pesanti procedimenti in cui è imputato… (dal caso Ruby a quello, mi pare, molto più grave, sui rapporti politico-mafiosi con il senatore siciliano Marcello Dell’Utri venuti alla luce nel processo palermitano sulle stragi del 1992), la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza che sarebbe passata del tutto inosservata sui nostri quotidiani come a livello televisivo, se l’Unità non avesse avuto la buona idea di chiedere un intervento al giovane costituzionalista torinese Andrea Giorgis.
Nel suo editoriale, il giurista ha ricordato che l’abrogazione dell’articolo 4 del decreto legge 2011 emesso dal governo Monti, che ridisciplina le modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, è avvenuta perché quella norma “viola il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’articolo 75 della Costituzione” Quindi -si afferma nella motivazione della sentenza- il legislatore “non può reintrodurre ciò che è stato abrogato in via referendaria,vanificando “l’effetto utile” della consultazione elettorale.
Ma -osserva a ragione Giorgis ed io sono d’accordo con lui- ricordando gli studi che mi condussero a studiare le sentenze della Corte Costituzionale in anni lontani e che mi condurranno presto a ricostruirne le vicende storiche abbozzate già allora – non è possibile contrapporre alle manifestazioni della democrazia diretta, di cui è espressione l’istituto referendario previsto dalla costituzione repubblicana, un primato rispetto alla democrazia rappresentativa che è alla base del nostro ordinamento costituzionale complessivo.
L’argomento centrale a cui si richiama il giurista torinese è che l’istituto referendario, in quanto tecnica decisionale “a somma zero” si presenta come una decisione “meno rappresentativa” e per questo aspetto “meno democratica” di quella che viene normalmente praticata per il tramite delle assemblee legislative.
“Il referendum -scrive ancora Giorgis- a differenza della democrazia pluralistico – rappresentativa, è un sistema di decisione-elementare e non calibrabile – che fa valere il principio maggioritario allo stato puro e tende a sacrificare in misura maggiore le esigenze e i valori delle minoranze.
In altri termini è il sistema decisionale che risulta meno capace di soddisfare le esigenze del pluralismo, e di rendere possibile l’assunzione di scelte ”a somma positiva” nelle quali tutti possono guadagnare qualcosa.”
Detto in termini più generali e adatti ai tempi in cui viviamo, sarebbe pericoloso fissare una gerarchia tra le norme che derivano dalle decisioni referendarie a quelle che nascono ogni giorno e ogni mese nel lavoro legislativo attraverso le istituzioni elettive.
E’ necessario, al contrario, seguire con precisione quel che è stabilito nelle procedure previste dal testo del 1948.
Soltanto così – mi pare di poter concludere rispetto alla pronuncia della Corte – si possono evitare problemi come quelli che scaturiranno dall’abrogazione del decreto legge numero 138 di cui potremo vedere nelle prossime settimane le conseguenze.