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Reintroduzione del reato di tortura, perché?

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“Mi auguro che il reato di tortura sia presto reintrodotto in Italia” ha dichiarato il procuratore generale di Genova Vito Monetti a margine della commemorazione della strage di via D’Amelio e alla vigilia dell’anniversario dei fatti del G8 del 2001. “Il delitto di tortura è un comportamento simile a quello che definiamo delitto di lesioni personali, ma – ha proseguito -, interviene un doppio salto qualitativo: da una parte la tortura può essere commessa solo da pubblici ufficiali con particolare efferatezza delle condotte. I delitti contro l’umanità sono imprescrittibili” ha concluso.

Dichiarazioni che sembrano state scritte per l’assemblea di Articolo21 e per dare un briciolo di speranza alle famiglie dei morti “torturati” di Stato. Bisogna insomma auspicare un salto nel passato di 25 anni (quando l’Italia ratificò la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura) per poter ottenere (forse) giustizia futura. Lucia Uva ha grandi occhi neri. Parla in modo semplice ma diretto quando dice: “Dove trovo il coraggio di affrontare un processo nel quale sono coinvolti dei carabinieri quando i poliziotti condannati per aver ucciso Federico Aldrovandi sono ancora regolarmente in servizio?”. Come possono essere considerati ancora difensori dello Stato coloro che hanno procurato la morte di altri uomini come Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva? E di quelli di cui non si conoscono storie e identità?.

Ma Lucia Uva afferma anche altro: “E’ stato salvato un innocente” riferendosi al medico ingiustamente accusato di aver somministrato farmaci che avrebbero provocato la morte di suo fratello Giuseppe. E allora ripercorriamo le tappe della sua storia partendo però dall’ultimo atto. Quello del giudice Orazio Muscato che nelle 60 pagine di motivazioni scrive: “Va rimarcato con chiarezza come costituisca un legittimo diritto dei congiunti di Uva Giuseppe (innanzitutto sul piano dei più elementari sentimenti propri della specie umana) conoscere, dopo quasi quattro anni, se negli accadimenti intervenuti antecedentemente all’ingresso del loro congiunto in ospedale siano ravvisabili profili di reato; e ciò tenuto conto che permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Uva Giuseppe – nei cui confronti non risulta essere stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per contravvenzione di cui all’articolo 659 c. pc. (disturbo dell’occupazione e del riposo delle persone, ndr) – è stato prelevato e portato in caserma.

Varese, 14 giugno 2008, stazione dei Carabinieri di via Saffi. “Giuseppe Uva è morto dopo le botte in caserma, dopo quelle tre ore passate con i carabinieri”. Uva non è morto per colpa dei medici, dei farmaci o della casualità. Giuseppe è morto dopo quelle percosse. Non sono le conclusioni dei familiari ma la perizia medico-legale ordinata dal tribunale e che smentisce in molti punti la ricostruzione del pm Agostino Abate che aveva individuato nei farmaci la causa della morte e per questo aveva mandato a processo per omicidio colposo due medici del pronto soccorso di Varese. E poco importa se sul verbale di quel giorno c’ era scritto che era vittima di una “tempesta emotiva”. Una dicitura che ricorda molto il “male attivo” di Giuseppe Pinelli. Il nuovo punto di partenza è la perizia che ha certificato l’innocenza dei medici e ha rilevato tracce di violenza sul corpo. Per i periti, la morte di Uva fu scatenata da “stress emotivo” dovuto all’alcool insieme alle “misure di contenzione fisica” e alle “lesioni traumatiche auto ed eteroprodotte”. Sulle lesioni che hanno portato all’infarto, scrivono i periti, “non è possibile fare ulteriori osservazioni perché c’è assoluta mancanza di documentazione inerente il periodo tra il fermo delle 3 e la relazione medica che prescrive il Tso, fino all’accesso in pronto soccorso alle 5.48”.

 


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