Il reato c’è, ma non è perseguibile. In Italia chi tortura gode dell’immunità garantita dall’assenza di legge. Sono passati inutilmente 25 anni, da quando nel 1987 l’Italia ratificò la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura, obbligandosi ad adattare l’ordinamento interno. Sarebbe bastato un articolo semplice copiato da altri paesi e il vuoto democratico sarebbe stato colmato. Invece il codice penale italiano attende ancora invano che il parlamento legiferi e aggiorni. Amnesty International ha promosso una manifestazione nazionale a Roma il sei ottobre insieme alle famiglie di vittime di violazioni di diritti umani e ha lanciato un appello firmato da 15 mila persone al presidente del consiglio e ai presidenti di Camera e Senato. L’associazione Antigone ha lanciato la campagna “Chiamiamola tortura”, raccogliendo oltre tre mila adesioni, tra i primi firmatari Andrea Camilleri, Massimo Carlotto, Cristina Comencini. Alla commissione giustizia del Senato è in discussione il disegno di legge affidato ai senatori Felice Casson del partito democratico e Alberto Balboni del popolo della libertà.In pochi giorni il testo potrebbe essere licenziato, ma alcune modifiche rischiano di vanificare il contenuto del reato. Basterebbe ratificare fedelmente la definizione presente nel Trattato dell’Onu, come è avvenuto in mezzo mondo, invece si gioca sulle parole e sull’efficacia del reato.
Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Onu, New York il 10 dicembre 1984
Art. 1. Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, … qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito.
Il testo presentato il 27 giugno è decisamente non conforme al Trattato Onu. Prevede ad esempio la compresenza di sofferenze psichiche e fisiche, oppure “il pestaggio senza ripercussioni psicologiche” che renderebbe non punibile per tortura il responsabile. E’ un puro esercizio di inciviltà democratica aver aggiunto nella definizione penale di tortura l’espressione “non in grado di ricevere aiuto”. Il torturato per ottenere giustizia deve essere “non in grado di ricevere giustizia”. Alla Diaz o a Bolzaneto chi gridava aiuto riceveva un supplemento di violenza gratuita, Federico Aldrovandi e Michele Ferrulli gridarono aiuto prima di morire, ma chi raccolse quelle invocazioni? Stefano Cucchi. abbandonato senza cure, “si lasciò morire” dunque, perché a chi avrebbe dovuto chiedere aiuto in una camera di un ospedale di un reparto penitenziario? Infatti Stefano scrisse una lettera al responsabile della comunità dove anni prima era stato ospitato. Chissà se la lettera di aiuto è prevista nel testo della presunta legge italiana sulla tortura? Giuseppe Uva custodito nella caserma dei carabinieri di Varese urlò di dolore, le perizie mediche hanno ipotizzato anche la violenza sessuale. Le sue grida furono udite in diretta da un amico, il p.m. che non indagò sul caso decise di non raccogliere la sua testimonianza perché “trattasi di persona ubriaca e non attendibile”. In questo caso la casistica si arricchisce di una nuova fattispecie: non è tortura se avviene in presenza di testimoni che non superano la prova del palloncino. Le motivazioni della sentenza di un giudice hanno clamorosamente smentito le conclusioni della non inchiesta sulla morte di Giuseppe Uva e hanno apertamente sollecitato la riapertura del caso. Testimoniò un’insegnante durante un’udienza sulla macelleria della Diaz: “Io non avevo mai partecipato ad una manifestazione, era la prima volta e decisi di accompagnare i miei studenti a Genova , volevamo festeggiare insieme la maturità. Mi ritrovai piena di sangue, il setto nasale spaccato da un manganello. Volevo chiedere aiuto, ma se è la polizia che mi aveva picchiato, a chi dovevo chiedere aiuto ?”.
Scrive sulla La Stampa Valerio Zagrebelscky, magistrato e giudice della Corte Europea dei diritti dell’uomo dal 2001 al 2010: “Se fosse previsto il resto di tortura le pene sarebbero ben più gravi … i reati contestati di lesioni si sono prescritti e nel frattempo nemmeno sono state applicate sanzioni disciplinari …. La conseguenza sul piano della credibilità internazionale dell’Italia è seria … sulla responsabilità del governo italiano si pronuncerà la Corte Europea dei diritti dell’uomo, alla quale sono già stai presentati diversi ricorsi … Il pretesto fatto valere è quello della necessità di proteggere la polizia da false accuse, ma le false accuse vanno scoperte e sanzionate nei processi. E purtroppo vi sono accuse più che fondate.”