La Rai è stregata. Tutto concorre a farne un’anomalia nelle anomalie italiane. Tanto per cambiare l’elezione del consiglio di amministrazione ha assunto le sembianze di una tragicommedia, con un fattaccio di mezzo. Si tratta dell’invasione di campo fatta dal presidente del Senato, che ha sostituito in corsa un membro della commissione di vigilanza con un altro. Quest’ultimo è di ‘Coesione nazionale’, una delle costellazioni di questo sistema politica in crisi di rappresentanza. E di rappresentazione decorosa. E tutto è avvenuto, fino a stravolgere le regole, per permettere al ‘Popolo delle libertà’’ di conquistare quattro postazioni nella stanza del cda del settimo piano di viale Mazzini, ivi compreso il super fidato Pilati, che nelle votazioni precedenti non era passato. L’ex europarlamentare Maria Luisa Todini, gli uscenti Verro e Rositani compongono il lato destro della compagine, scelti prescindendo da ogni forma di dibattito pubblico, come pure l’udc De Laurentiis. La tenacia e la sfrontatezza degne di qualche altra causa danno l’idea esatta, realistica del ruolo assegnato dal berlusconismo (ben in auge nei media televisivi) alla Rai. Altro che servizio pubblico. Mero luogo di potere, in vista delle vicine turbolenze elettorali e di qualche probabile operazione di sistema. Ad esempio, la vendita degli
impianti trasmissivi, per dare un’altra mano alla debilitata Mediaset, che nel campo sta diventando monopolio pressoché assoluto, dopo l’acquisizione di Dmt –la maggiore impresa italiana del settore- da parte di Elettronica industriale, la società del biscione. E non solo.
Il Partito democratico ha votato due figure espresse da importanti associazioni della società civile, Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo. E’ stata un’iniziativa davvero rilevante, ma che non può rimanere una fiammata. Al contrario, la costruzione di un programma di vera alternativa richiede un tavolo di lavoro aperto alle esperienze, al network di culture delle diversità che sole possono rovesciare le logiche del conflitto di interessi della destra e il conservatorismo del centrosinistra.
Per un soffio, anzi per un colpo di mano, non è arrivata in consiglio Flavia Piccoli Nardelli, sorretta da Italia dei valori, Perina, Melandri e dal malcapitato dissidente di un Pdl subito trasformato in istituzione autoritaria, da ventennio italiano o da anni trenta staliniani. Peccato, una presenza femminile maggiore avrebbe dato uno sbocco almeno parziale alla straordinaria mobilitazione delle donne contro l’uso berlusconiano del corpo delle donne.
Dunque, una triste avventura, un po’ contenuta dall’autorevolezza di Sergio Zavoli e dalla mobilitazione sindacale.
Che accadrà ora? Innanzitutto c’è l’incognita della missione che il governo Monti ha assegnato ai designati presidente e direttore generale, Tarantola e Gubitosi. Si limiteranno a una spending review mediatica, tagliando o persino mettendo in mobilità un bel po’ di persone, visti i conti in grave perdita, lascito della gestione di Mauro Masi? O vorranno accettare la sfida di un servizio pubblico ‘bene comune’, dandosi compiti limitati e di transizione? Si potrà avere un confronto vero sulle strategia della maggiore azienda culturale italiana, potenziale bussola dell’era digitale? Ci sarà una scommessa sui modelli produttivi e sul rapporto intelligente con i territori? Solo così si ricostruirà una luogo di aggregazione del lavoro intellettuale, salvandolo un po’ dalla maledizione della precarietà. Si riuscirà a ridare senso ad una parola offesa dai tanti bavagli come pluralismo, contro censure politiche e omologazioni mercantili? Carlo Freccero e Michele Santoro dicevano all’incirca questo quando si ‘autocandidarono’. E sarebbe probabilmente d’accordo il precursore della Rai di qualità che ce l’ha insegnato: Massimo Fichera, che salutiamo ricordandone acutezza e ingegno.
da Il Manifesto 7 luglio 2012