E’ difficile immaginare che vi sia stato un tempo in cui la Rai era un laboratorio che sfornava senza sosta programmi assolutamente innovativi e intelligenti, colti e al tempo stesso popolari, senza censure e, soprattutto, senza autocensure. Chi potrebbe crederlo avendo di fronte il panorama devastato di un servizio pubblico che ha perso la sua vocazione etica e civile? Eppure, circa quarant’anni fa, sebbene soltanto per un breve periodo, la Rai è stata felicemente libera e creativa. Il principale protagonista di quella stagione rivoluzionaria, colui che interpretando lo spirito della riforma diede vita a una politica dei “cento fiori”, è stato Massimo Fichera, storico direttore di Rai Due, una figura “irregolare” e ingombrante come quelle di Franco Basaglia, Luigi Di Liegro e Adriano Olivetti, al cui fianco aveva lavorato.
Fichera era un “animale politico” senza mai essere stato un funzionario di partito; era un fine intellettuale ma non dava sfoggio di erudizione e neanche scriveva libri; era uno straordinario organizzatore di cultura ma era abilissimo nel destrutturare vecchie impalcature burocratiche che impedivano alla creatività di esprimersi.
Da questo punto di vista il suo profilo corrispondeva alla figura del nuovo intellettuale descritto da Gramsci nei Quaderni: “Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore e organizzatore….. che giunge alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico)”.
La nomina di Fichera a direttore di Rai Due fu molto contrastata all’interno del Partito Socialista (ma non solo) a causa della sua scarsa inclinazione a uniformarsi e della sua eccessiva intransigenza (fu l’unico consigliere di amministrazione che osò votare contro le delibere di Ettore Bernabei). A vincere le resistenze fu la pressione in suo favore di un ampio fronte riformatore, il Movimento di Informazione Democratica, che organizzava manifestazioni di piazza e chiedeva udienza alle più alte cariche istituzionali. (Un esempio antelitteram di una candidatura espressa dalla società civile!)
Il pluralismo cui si ispirava Fichera non era quello delle casacche di partito ma quello presente nella realtà sociale con le sue vittime e i suoi protagonisti che, per la prima (e ultima) volta, nella sua Rai Due, presero la parola direttamente, senza la mediazione dell’anchormen di turno. Erano gli operai dell’Alfa Romeo che si battevano per una fabbrica più umana e quelli dei trentacinque giorni di Mirafiori, erano i contadini siciliani a cui la mafia aveva sottratto l’acqua e i “matti” che si liberavano del manicomio; erano le donne che lottavano contro le discriminazioni e la violenza, e i terremotati dell’Irpinia soverchiati dalla camorra e dalle multinazionali dell’edilizia.
La programmazione di Rai Due era al contempo popolare e colta: in senso creativo, non pedante. Trasmetteva in prima serata Carmelo Bene che recitava Majakovskij e il Benigni di “Tele Vacca”, “L’Orlando furioso” per la regia di Luca Ronconi e il “Mistero buffo” di Dario Fo; una scelta, quest’ultima, che gli costò un lungo ostracismo.
Fichera aveva importato nella Rai la cultura liberalsocialista di Adriano Olivetti, quella socialista dei fratelli Rosselli e quella riformista del PCI. Ma non vi è stata occasione nella quale i partiti della sinistra non abbiano mostrato fastidio per la sua onestà intellettuale e per la sua strenua difesa di quei giornalisti e quegli autori – ed erano tanti – che inventarono in quegli anni un modo nuovo di fare televisione scontrandosi con il conformismo politico e culturale imperante nella politica. Quando ci cullavamo nell’idea che quel grande laboratorio che era Rai Due potesse sopravvivere al riflusso politico dei primi anni Ottanta, amava ripeterci: “Non fatevi illusioni – non resterò a lungo Direttore di Rete perché ho un difetto che per molti è intollerabile: ragiono e decido con la mia testa”. Purtroppo, fu preveggente.
La sua giubilazione a Vice Direttore Generale, nonostante la presidenza illuminata di Sergio Zavoli, portò alla normalizzazione di Rai Due; coincise con la nascita delle televisioni commerciali e, dopo la metà degli anni Ottanta, con una forma di occupazione partitico-burocratica divenuta negli anni devastante al punto da cancellare finanche la memoria di quella straordinaria stagione del servizio pubblico.
Chi ha a cuore la Rai ha il dovere di scrivere quella storia ricordando il ruolo che vi ebbe Massimo Fichera, il dirigente gramsciano che dimostrò che un’altra Rai era possibile.