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“Macelleria” G-8. Troppi silenzi e omertà. La grande voglia di archiviare

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È palpabile, si coglie e si “respira”: c’è una gran voglia di archiviare la vicenda del G-8, quella “macelleria messicana” che si è consumata alla scuola Diaz e il giorno dopo alla caserma Bolzaneto. Al contrario, più che mai dovrebbero essere puntati i riflettori, si dovrebbe fare chiarezza. I fatti, nella loro successione. Il vicequestore Michelangelo Fournier racconta che “i poliziotti infierivano sui manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana”. Per quella “macelleria” vengono condannati, in sede definitiva, sedici alti funzionari di polizia. La Cassazione stabilisce che durante l’irruzione della Diaz “venne artificiosamente creata una resistenza attiva attraverso false ipotesi per fare arresti di massa. Si va dal falso aggravato all’arresto illegale, dalle lesioni aggravate alla calunnia, dalla perquisizione arbitraria alla violenza privata, dall’appropriazione indebita alla detenzione di armi da guerra…” E ci si è risparmiati il reato di tortura solo e unicamente perché questo reato, nei nostri codici non è contemplato.

Il capo della polizia Antonio Manganelli chiede scusa alle vittime, e si inchina al verdetto. “Il Messaggero” pubblica, il 7 luglio, un’intervista a Massimo Nucera, uno dei condannati (falso e calunnia, tre anni e otto mesi per il falso, cinque anni di interdizione, per la “coltellata fantasma” da cui poi è nata l’irruzione alla Diaz). “Siamo stati gli unici a fornire ai magistrati l’elenco completo dei nostri nomi e cognomi”, dice Nucera. “Avevamo la coscienza a posto, pensavamo di non avere nulla da temere. Poi nessun altro ha fornito le proprie generalità e dei quattrocento poliziotti che quella sera entrarono alla Diaz, ne sono stati indagati solo una ventina: noi del Settimo Nucleo”. E ancora: “Digos e squadre mobili di mezza Italia, una macedonia di persone non addestrate, che hanno perso la testa, che si sono lasciati andare. I magistrati non li hanno cercati e hanno processato noi”.

Il 10 luglio “l’Unità” pubblica un’intervista a Enrico Zucca, il magistrato che ha rappresentato l’accusa nelle indagini sulla Diaz. “Vorrei ricordare”, dice tra l’altro, “che negli interrogatori gli indagati, i comandanti effettivi, hanno sostenuto di essere arrivati tre minuti dopo, quando era già successo tutto, I filmati dicono il contrario. Delle due, l’una: o era un ordine dall’alto, oppure un errore che però andava subito smascherato e denunciato. Ma da quel punto in poi non abbiamo più avuto risposte… L’istituzione polizia non è stata in grado di identificare i suoi uomini. Ma è accaduto di più: nel verbale di arresto c’è una firma a cui non siamo mai riusciti a fare un nome. Chi chiede scusa per il boicottaggio alle indagini? Non ci può essere riconciliazione finchè non emergeranno i responsabili del tentato omicidio di Mark Covell…”. E ancora: “Le indagini sul G8 hanno fatto emergere un lato oscuro, il fenomeno della corruzione per nobile causa, la nobile cause corruption, termine coniato da un poliziotto inglese negli anni Ottanta. Si tratta di prassi devianti che ogni polizia sa che allignano al suo interno. Significa aggiustare le prove pur di arrivare all’obiettivo. Durante il G8 alcuni uomini delle istituzioni hanno pensato, in buona fede, che dovevano assicurare un risulato ma l’hanno fatto commettendo il peccato mortale di ogni pubblico funzionario. Purtroppo è un terreno vasto. Che non va sottovalutato, perché da qui passa la differenza tra democrazia e stato totalitario”.

Sempre il 10 luglio “Il Manifesto” altre dichiarazioni del PM Zucca, ancora più dure: “…gli apparati dello Stato, lungi da permettere un’indagine rigorosa collaborando con la magistratura, hanno ostacolato l’indagine. È una parte delle scuse mancanti”. E a proposito della questione sollevata da Nucera: “…dei 400 agenti in procura arrivarono le foto dei medesimi all’epoca della leva, dieci, vent’anni prima dei fatti e la responsabilità penale in Italia è personale, non di gruppo. Per chiarire meglio l’atmosfera del duello tra polizia e magistrati, è anche utile ripercorrere la vicenda dell’uomo con la coda di cavallo. L’agente è visibile dentro la Diaz, durante il pestaggio, in un filmato ripreso da un attivista inglese, che riuscì a nascondersi fra i serbatoi dell’acqua sul tetto della scuola Pascoli. È il filmato di Indymedia in cui si vedono le truppe d’assalto sfondare il cancello ed entrare nella scuola. Coda di cavallo ha una maglia da rugby a righe e un bastone. Ricordo che nel momento in cui ci fu un contatto con Manganelli e De Gennaro, ancora prima di chiudere le indagini, chiesi di collaborare almeno su aspetti dirompenti per l’immagine della polizia. Ci fu da parte loro un impegno direi solenne a identificare almeno l’agente con la coda e i firmatari del verbale dell’arresto…”.

È finita che la procura riuscì a mettere insieme i nomi di 13 persone e “coda di cavallo” viene riconosciuto quasi per caso, anni dopo, da un consulente dei legali perché saltò fuori che era della questura di Genova e assisteva regolarmente al processo. Il reato era prescritto e nessuno aprì alcun fascicolo. Ma le questure risposero che non lo conoscevano, e quella di Genova non rispose mai.

Analoga, anche se più dettagliata, l’intervista che lo stesso giorno pubblica, sempre a Zucca, il quotidiano genovese “Il Secolo XIX”; e basti il titolo virgolettato: “La polizia chieda scusa per l’omertà e i depistaggi”.

A questo punto arriva il comunicato dell’attuale sottosegretario (e allora capo della polizia) De Gennaro, che non chiede scusa, e sostiene che il suo operato è sempre stato conforme alla Costituzione e alla legge, e ha espresso solidarietà umana nei confronti dei funzionari condannati.

Cosa se ne ricava? Una sentenza che arriva dopo undici anni, quale che sia il verdetto, non è giustizia. Le scuse, per essere credibili, dovrebbero essere accompagnate da comportamenti conseguenti. L’episodio citato da Zucca, il giornalista inglese Covell, colpito selvaggiamente mentre era a terra svenuto, è da manuale: “Quella verità”, dice Zucca, “è nelle mani della polizia e non c’è prescrizione”.

Uno dei condannati accusa la magistratura di non aver indagato a fondo. Il magistrato titolare dell’inchiesta sostiene che i vertici della polizia hanno boicottato le indagini. E poi i silenzi: quelli dell’allora ministro dell’Interno, Claudio Scaiola; e dell’attuale presidente della Camera Gianfranco Fini, che all’epoca dei fatti si trovava nella “situation room” genovese, non si è mai spiegato a che titolo, e per fare cosa, anche se è evidente che la sua sola presenza costituiva una “copertura” per quello che accadeva. Ne Scaiola né Fini hanno finora fiatato.

Troppi silenzi, troppa omertà. Una volontà di archiviare, “troncare e sopire, sopire e troncare”. La verità su quei giorni fa ancora paura a tanti.


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