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L’Ilva di Taranto e il dilemma su cosa, come, dove e per chi produrre

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Che infinita tristezza provoca il dover constatare che nel XXI secolo, nell’ottava o nona potenza economica mondiale, il lavoro e la salute siano ancora posti in una condizione duale, dicotomica. In un bellissimo documentario (“Ultimi fuochi” di Manuela Pellarin) sulla condizione operaia negli anni ’60 del secolo scorso, un operaio del Petrolchimico di Porto Marghera rispondeva mesto alla domanda del giornalista sul perché accettasse una condizione lavorativa così rischiosa con queste tre parole: “Fumo o fame”. Ad ammazzare a Marghera era il cloruro di vinile monomero, all’Ilva di Taranto le diossine. Ma quanti sono i conflitti tra produzioni industriali e ambiente ancora aperti nel nostro paese? Dalla Ferriera di Trieste (Lucchini), al termodistruttore Fenice (EDF, ex Fiat) di Melfi, dalle centrali termoelettriche a carbone liguri (Enel), ai cementifici di Monselice. Chi tiene il conto? Una volta la Cgil aveva una struttura Ambiente Lavoro, oggi, in periodi di recessione economica, la salute sembra essere diventata un lusso. Per fortuna c’è qualche (raro) magistrato. Ma anche qui non facciamoci illusioni: le strutture scientifiche di cui la magistratura si può avvalere sono sotto gli attacchi alla spesa pubblica. Il più rinomato centro sulle diossine INCA (un  consorzio tra 19 università italiane e altre decine di unità di ricerca nel settore della chimica e delle tecnologie per l’ambiente) e che ha supportato anche l’inchiesta di Taranto, è in pericolo di chiusura. Del resto,  solo per fare un esempio, ricordiamoci che con il ministro Mattioli le ricerche sugli effetti delle radiazioni generate dai campi elettromagnetici (telefonini, ripetitori, radar, ecc.) sono state “esternalizzate” a quella Fondazione Maugeri nota per gli scandali alla Regione Lombardia. Con il passaggio delle competenze ambientali alle Asl regionali le attività di prevenzione sono state di fatto azzerate, con esse i registi tumori e le indagini epidemiologiche necessarie a stabilire le correlazioni tra inquinamenti ambientali e malattie.

Ciò che colpisce delle numerose, candide interviste rilasciate dal ministro Corrado Clini (già medico del lavoro e da decenni direttore generale del Ministero per l’Ambiente) a sostegno, non già della applicazione delle leggi – come ci si aspetterebbe da un fedele servitore dello Stato – ma delle ragioni dell’impresa sotto accusa, sono le motivazioni. “Forse – ha dichiarato Clini a “il manifesto” del 27 luglio  – dieci anni fa chiudere lo stabilimento aveva un senso, ma ora no”. Giusto, ma lui, e tutto l’apparato di valutazione e controllo che uno stato civile dovrebbe mettere in campo a difesa della salute dei cittadini (compresa quella della sotto-specie, a diritti limitati, che sono gli operai), dov’erano, cosa facevano, nonostante fossero perfettamente a conoscenza della situazione?

Non so se l’inchiesta della Procura della Repubblica abbia un’appendice nei confronti delle strutture pubbliche locali, regionali (Asl) e nazionali (ministeri vari). Ma è questa la parte che darebbe più soddisfazione alle centinaia di vittime (386 decessi negli ultimi 13 anni) e alle migliaia di malati di Taranto, dentro e fuori la fabbrica. Scoprire che i padroni fanno i loro interessi sulla pelle dei dipendenti non è poi una grande novità. Più interessante sarebbe vedere in faccia chi e sapere per quali ragioni ha omesso i controlli, ha rilasciato autorizzazioni, concesso finanziamenti a imprese palesemente fuorilegge.

Vedremo. Ma il dato politico più allarmante è un altro. Sono i dipendenti in queste ore a sfilare a sostegno delle ragioni dei propri aguzzini. Non sono cinico, non mi manca la capacità di comprendere il dramma umano di persone disperate perché sotto ricatto. Ciò che mi rattrista è l’incapacità di immaginare una via di uscita che non sia la sottomissione alle ragioni della produzione, della produttività, della competizione… La questione non si risolve se non affrontando alle radici la globalizzazione che ha prodotto in Occidente allo stesso tempo disoccupazione e deterioramento delle condizioni di lavoro. Mi vengono in mente le riflessioni di André Gorz a partire da Marx: “Egli (l’operaio salariato) non considera il lavoro in quanto tale come facente parte della sua vita; è piuttosto il sacrificio di questa vita. E’ una merce che egli aggiudica ad un terzo” (Lavoro salariato e capitale, 1849). Quando la mercificazione del lavoro raggiunge tali livelli di alienazione, allora – aggiungeva Gorz – “Lavoro e capitale sono fondamentalmente complici nel loro stesso antagonismo per il fatto che guadagnare del denaro è il loro fine determinate. Agli occhi del capitale, la natura della produzione importa meno della sua redditività; agli occhi del lavoratore, essa importa meno degli impieghi che crea e dei salari che distribuisce. Per l’uno e per l’altro, ciò che è prodotto importa poco, posto che renda. L’uno e l’altro sono, coscientemente o meno, al servizio della valorizzazione del capitale. E’ per questo che il movimento operaio e il sindacalismo non sono anticapitalisti se non nella misura in cui mettono in questione non soltanto i livelli dei salari e le condizioni di lavoro, ma le finalità della produzione, la forma merce del lavoro che la realizza ” (Ricchezza senza valore, valore senza ricchezza, in Ecologica, Jaca Book 2009, pp.125/126). Affermare, quindi, come bene fa la Fiom, che il lavoro è un bene sociale comune – così come il sole o l’acqua lo sono nel campo dei beni naturali – significa finalmente voler sottrarre le decisioni sul cosa, dove, per chi produrre alle leggi del mercato, cioè del profitto e del diritto di proprietà. La liberazione del lavoro dall’eteronomia non può che avvenire attraverso un conflitto per affermare modi e forme democratiche di decisione sul cosa, come, dove e per chi produrre.


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