“La lotta alle mafie vuol dire anche lavoro. Lavoro per i giovani, per gli adulti che lo hanno perso, per le famiglie che non riescono a tirare avanti. Insomma una società che si preoccupa dei giovani e dei senza lavoro ma che più che preoccuparsi dovrebbe occuparsene di più”. Sono le parole pronunciate da Don Luigi Ciotti in occasione di una visita, lo scorso maggio, all’Istituto d’Arte “De Luca” di Avellino per celebrare una delle tante giornate della memoria, in ricordo delle vittime delle mafie. Un’occasione importante, per ricordare i 20 anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino, per ribadire che la lotta alle mafie oggi non è solo quella che si combatte nei tribunali, con gli arresti o col carcere duro per i boss, ma è anche la possibilità di offrire nuove opportunità a quei giovani che saranno la società del futuro.
Parole pronunciate in una provincia, quella irpina, che come tante e forse più di altre sta subendo i forti effetti di questa crisi che si traducono concretamente nella chiusura di fabbriche e aziende che hanno lasciato senza stipendio tanti lavoratori in questi ultimi anni, giovani insoddisfatti e delusi che ormai hanno smesso finanche di cercare lavoro, donne sempre più casalinghe e sempre meno in carriera, piccoli e medi imprenditori indebitati fino al collo e costretti ad abbandonare la propria attività. Insomma uno scenario inquietante, nel quale si moltiplicano episodi di disparità e corruzione, dove ci sono “paperoni” che dichiarano al fisco annualmente un reddito inferiore a un semplice operaio.
Potremo poi citare gli stipendi dei nostri cari onorevoli parlamentari che in media incassano mensilmente 10mila euro, senza considerare agevolazioni e vantaggi economici non indifferenti. Insomma uno squilibrio totale in un Paese che fonda sulla giustizia la propria materia di vita. Ci sono state famiglie in seria difficoltà, che non sono riuscite a sostenere l’alto prezzo della crisi e in alcuni casi la tragedia è stata inesorabile. In questi ultimi mesi si sono registrati, un po’ dappertutto, diversi suicidi per lavoro. Episodi sui quali giornali e speciali non hanno mancato di speculare anche per mettere in evidenza le estreme conseguenze di questa crisi economica, ma soprattutto per dar risalto a una riforma del mercato lavoro necessaria e vitale. È proprio il caso di dirlo. La mancanza di lavoro per i nostri giovani, la perdita di lavoro e la chiusura di attività industriali, i sacrifici insopportabili che le famiglie sono costrette a fare generano malcontento, depressione, ma anche voglia di riscatto. Allora trovare la strada più semplice e rapida per guadagnare in tempi di crisi può essere offerta, in molti casi, da associazioni malavitose che investono in traffici occulti, di droga o armi. I primi ad essere reclutati sono proprio i giovani che possono diventare un investimento per il futuro, per far sì che attività criminali del genere si rigenerino e continuino a crescere.
Antonio Ingroia, procuratore aggiunto del Tribunale di Palermo, a fine maggio ha partecipato al convegno “L’Italia e le mafie” organizzato dall’università di Salerno. In quell’occasione è stato inaugurato anche un giardino della legalità per ricordare tutte le vittime delle mafie e della criminalità in Campania. “Se ci guardiamo indietro – ha detto il magistrato che ha collaborato con Paolo Borsellino nelle ultime indagini contro Cosa Nostra – ci rendiamo conto che sono stati compiuti grossissimi passi in avanti: c’è un livello di maggiore consapevolezza, una cultura dell’antimafia che è cresciuta, un maggiore impegno della magistratura e delle forze dell’ordine. Se guardiamo avanti ci rendiamo conto che c’è ancora molta strada da fare e che ci sono alcuni snodi, soprattutto sul rapporto mafia-politica, mafia-finanza, mafia-affari, sui quali ci vuole molto impegno da parte di tutti. Confido molto nelle giovani generazioni che sono la società del domani. Non credo che noi riusciremo a sconfiggere la mafia nel giro di pochi anni e quindi la responsabilità è soprattutto di questi giovani, della società del domani, che speriamo costruiscano una classe dirigente migliore di quella del passato”.
La capacità di offrire opportunità “pulite” a queste leve del futuro, per costruire un’Italia sempre più libera da quella piovra che si chiama mafia, camorra, sacra corona o n’drangheta, è un obbiettivo primario che nessun governo dovrebbe tralasciare. Quindi l’impegno profuso nella ricerca di soluzioni che possano consentire a queste giovani generazioni di avere un lavoro dopo il proprio percorso di studi o di apprendistato, di costruirsi una famiglia e di sperare in un futuro sempre migliore per i propri figli va tutto a vantaggio di una società che ha scelto di progredire al meglio e di abbattere quel cancro sociale costituito da mafie e criminalità organizzata.
In occasione dello stesso convegno il giornalista Pietro Nardiello, autore del libro “Il Festival a casa del boss” (Phoebus edizioni) nel quale racconta quella che definisce “un’utopia concreta”, la splendida esperienza del Festival dell’Impegno Civile, da lui stesso ideato in provincia di Caserta e interamente realizzato nei beni confiscati alla camorra, dice: “Se noi ci limitiamo al puro ricordo facciamo solo delle belle manifestazioni, se invece pensiamo di lasciare un impronta sul territorio così come abbiamo fatto col Festival per scardinare i muri dei silenzi, per provare a coinvolgere i giovani dei territori, allora sì che tutto ha un senso”. Coinvolgere i giovani, dare loro fiducia e nuove opportunità, prepararli a costruire onestamente la classe dirigente del futuro può essere un investimento sicuro guardando a una società libera e sana da mafie e criminalità.