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Decrescita e commons

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La prossima Conferenza internazionale sulla decrescita che si terrà a Venezia dal 19 al 23 settembre (programma definitivo su: www.venezia2012.it) seguirà alcuni assi tematici tra cui non poteva mancare quello dei commons. Una locuzione sempre più usata da movimenti sociali e gruppi di cittadinanza attiva per qualificare l’oggetto delle loro rivendicazioni. Beni, saperi, servizi, strumentazioni, infrastrutture, norme e istituzioni sociali vengono definiti “beni comuni” con l’intento di sottrarli dalla sfera del domino della proprietà esclusiva (tanto privata, quanto pubblica-statale) e dalle logiche del mercato per instaurare, invece, un sistema di gestione che consenta un loro uso universalmente accessibile (condiviso ed inclusivo) e “capace di futuro” (rispettoso dei cicli geo-bio-chimici e dei tempi di rigenerazione delle risorse naturali).

Prima di essere delle “cose” (common goods) i beni comuni sono quindi un processo di auto-riconoscimento sociale e di presa di coscienza collettiva; un repertorio di pratiche condivise che generano legami conviviali e comunitari tesi a trovare una buona relazione con l’ambiente, con ogni forma vivente, con gli esseri umani tutti. Ha scritto Raj Patel“Ciò che definisce un bene comune è il nesso che si instaura tra gli individui. Nella gestione collettiva del bene gli individui si uniscono e creano una communitas, realizzano un progetto collettivo, operano pratiche condivise (…) La pratica dei common, la gestione collettiva delle risorse comuni, richiede una rete di relazioni sociali finalizzate a tenere a freno gli istinti più vili (egoismo, avidità, soprafazione) e a promuovere un diverso modo di valutare il mondo e di relazionarsi con gli altri” (Raj Patel, Il valore delle cose, Feltrinelli, 2010).

Che relazione vi è tra beni comuni e decrescita?
Se le caratteristiche dei beni comuni sono la loro indispensabilità alla vita e la loro irriproducibilità, allora ne consegue che la loro gestione deve rispettare due semplici e forti criteri: la preservazione del bene (anche in una ottica intergenerazionale) e la condivisione universalista dei benefici che se ne possono ricavare. La “società dei beni comuni” e la “società della decrescita” hanno in comune una idea di fruizione sostenibile ed equa delle ricchezze naturali e culturali in un processo di un mutamento di civiltà nel segno della responsabilità collettiva. Cioè, un progetto propriamente politico di mutamento dei modelli economici, dei comportamenti e degli stili di vita personali, dei sistemi di organizzazione dei poteri e del governo pubblico.

Decrescita e beni comuni sono due facce della stessa medaglia. Se decrescita a qualcuno può sembrare solo la parte destruens del discorso (per via della particella “de”, privativa),  beni comuni costituiscono la parte construens della società auspicata. La decrescita, infatti, mira a liberare spazi e tempi di vita dal tritacarne della megamacchina termo-industriale per lasciare fiorire un’altra idea di società meno in disarmonia con i cicli naturali e meno squilibrata a danno dei più deboli. Più si riuscirà a ridurre la sfera delle attività mercificate (dove vige la dittatura dell’accumulo senza fine, del profitto e del Pil), più si potrà allargare la sfera delle attività libere, scelte, volontarie, creative, utili per se stessi e per gli altri. Se decrescita significa rifiutare le logiche economiche predatorie delle risorse naturali e i meccanismi giuridico-istituzionali distruttivi delle stesse relazioni umane, il prendersi cura dei beni comuni significa allora rovesciare il modo di pensare al mondo e a noi stessi, dare un senso profondo e un obiettivo etico al fare umano.
I beni comuni sono risorse speciali, beni primari “della vita”, basilari, originari, nel senso che sono precondizione per poter svolgere qualsiasi attività. Sono ricchezze naturali e lasciti sedimentati dal lavoro creativo svolto dalle generazioni precedenti alle nostre: materie prime e saperi, codici, lingue, norme, sistemi di risorse connettive e sistemi di valori relazionali. Nel concreto sono servizi idrici, istruzione e cultura, internet, foreste, fiumi, beni demaniali, semi, infrastrutture, lavoro. Beni indispensabili e insostituibili per il buon vivere assieme, per rendere effettivi dei diritti fondamentali degli individui. I beni comuni sono le cose che condividiamo e di cui non possiamo fare a meno. Beni che per essere di tutti non possono appartenere in esclusiva ad alcuno. Per tale ragione essi devono essere sottratti alla gestione privatistica e affidati a forme di gestione pubblica partecipata.

Se la proposta politica della decrescita allude a una società di comunità aperte, tra loro solidali nella pratica della sussidiarietà, fortemente legate ai territori, che disegnano una rete di democrazie locali basate sulle bioregioni, cioè comunità ecologiche dove le piante, gli animali, le acque e gli uomini formano un insieme relativamente coerente, allora i beni comuni costituiscono la sostanza delle relazioni sociali tra gli individui.

I beni comuni, quindi, aprono al tema dell’empowerment, della “capacitazione”, del coinvolgimento cosciente e responsabile delle persone e della formazione di una cittadinanza attiva che si attiva dal basso attraverso innumerevoli pratiche di autogoverno partecipato, di mutualità, di auto aiuto, di volontaria collaborazione. Pensiamo ai gruppi di acquisto solidale, alle banche del tempo, agli orti urbani condivisi, alla microfinaza, alle monete complementari, alle innumerevoli forme di co-abitazione, alle varie forme di mobilità condivisa, ai creative commons e ai feee software… Insomma agli innumerevoli modi di auto-organizzazione dal basso che stanno prendendo piede alla base delle nostre società e che chiedono solo di essere lasciate libere di sperimentare, riducendo al minimo possibile deleghe e rappresentanze.

Qui si apre uno sconfinato campo di elaborazione e sperimentazione politica per trovare modelli di governo pubblico partecipato (non necessariamente statale) nei processi decisionali e nella gestione pratica dei beni comuni, immediatamente praticabili, declinando la nozione di bene comune come una nuova categoria del politico e del giuridico. Le esperienze avviate dal Comune di Napoli con l’assessorato ai beni comuni e alla partecipazione indicano una via replicabile.


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