Leggendo una grandissima parte dei nostri quotidiani in edicola oggi martedì 17 luglio 2012, non ho trovato in nessun editoriale, eccetto in quello di Attilio Bolzoni pubblicato da Repubblica, la verità elementare che emerge con chiarezza dalle indagini svolte finora sulle trattative tra mafia e Stato in quel momento fatidico della storia repubblicana, quel biennio tra le stragi di Capaci e di via D’Amelio e i successivi attentati dinamitardi di Firenze e di Milano nella primavera del 1993 e l’ormai sicuro raggiungimento di una tregua tra le istituzioni pubbliche che dura tuttora nella nostra repubblica.
E questo elemento non riguarda la posizione politica che oggi si può assumere rispetto al conflitto di attribuzione sollevato dal presidente Napolitano con la procura della repubblica di Palermo. La quale ha ribadito di non aver voluto ledere in nessun modo le prerogative costituzionali del Capo dello Stato intercettato casualmente soltanto per alcuni dei suoi colloqui telefonici con l’ex presidente del Senato e poi del Consiglio Superiore della Magistratura Nicola Mancino né a me spetta, in pendenza di quel delicato giudizio, in atto pressola Corte Costituzionalee destinato a protrarsi nelle prossime settimane, esprimere la mia personale opinione.
A chi scrive, in qualità di studioso, interessa, in un intervento giornalistico, sottolineare quale è il significato dell’interlocuzione che di sicuro ci fu tra la più alta carica dello Stato e un semplice cittadino che aveva ricoperto per molti anni ruoli di grande importanza in parlamento, al governo e nelle istituzioni di più alto livello dello Stato quale senza dubbio è stato ed è tuttora il Consiglio Superiore della magistratura, a proposito dei rapporti tra le associazioni mafiose della penisola e gli organi di governo della repubblica e su quali argomenti allora si svolse presumibilmente quella interlocuzione.
Per cogliere il senso del contrasto politico attuale ma anche dell’interesse di vicende lontane nel tempo ma ancora attuali in quanto persistono nella nostra storia anche più recente punti oscuri e ruoli non bene chiariti né a livello di cronaca che di vera e propria storia – è chiaro che la conclusione del maxiprocesso di Palermo, intrapreso a metà degli anni ottanta dai giudici Falcone e Borsellino contro lo stato maggiore dell’associazione Cosa Nostra di Palermo guidata da Salvatore Riina e da Bernardo Provenzano, aveva costituito un grave danno concretatosi in molte condanne all’ergastolo confermate proprio nel 1992 dalla suprema Corte di Cassazione.
Questo esito giudiziario coincise con la più grave crisi del sistema politico repubblicano che portò, proprio in quel biennio, allo scioglimento e alla trasformazione dei tre maggiori partiti della repubblica, all’uscita di scena di alcuni tra i più noti leader politici a cominciare da Giulio Andreotti, imputato nel 1993 di concorso esterno per mafia di fronte al tribunale di Palermo, da Bettino Craxi costretto prima alle dimissioni forzose dalla segreteria del Partito Socialista e quindi all’esilio di Hammamet, alla trasformazione avvenuta qualche anno prima del Partito Comunista Italiano e all’aggregazione in una nuova forza politica, il Partito democratico, dei reduci di quel partito e di una parte di politici che aveva militato nel partito cattolico ormai sciolto.
In una simile situazione, caratterizzata da un’offensiva di Cosa Nostra che durava da alcuni anni e che si configurava, per convinzione di molti, in una sorta di attacco frontale con omicidi e stragi contro lo Stato e gli uomini che a livello politico (come il presidente della regione Sicilia Pier Santi Mattarella ucciso in un agguato mafioso nel 1980) e a quello giudiziario (culminato negli eccidi dei magistrati palermitani Falcone e Borsellino e delle loro scorte) nell’anno fatale 1992, nell’arco di poco più di cinquanta giorni che separano la strage di Capaci il 23 maggio e quella di via d’Amelio il 19 luglio dello stesso anno) è chiaro che da parte di Cosa Nostra avesse luogo il tentativo di ottenere dallo Stato condizioni di coabitazione nuove e tali da consentire all’associazione di continuare a svolgere i propri affari leciti e illeciti senza dover rischiare di perdere non soltanto i profitti ma anche i propri capi e i loro successori.
Di qui una trattativa che, da una parte, chiedeva alla repubblica di allentare il regime carcerario approvato negli anni precedenti, di cui l’applicazione dell’articolo 41 bis del codice di procedura penale costituiva il punto centrale, e, dall’altra, misure particolari riguardanti l’una o l’altra situazione individuale tale da consentire ai successori di Riina, arrestato fin dal gennaio 1993, e quindi in primo luogo di Provenzano di governare l’associazione siciliana applicando sempre di più una tattica di immersione sotto la superficie per continuare i propri affari senza attirare di più l’attenzione dei magistrati e delle forze dell’ordine come era avvenuto nella seconda metà degli anni ottanta e all’inizio del nuovo decennio.
Del resto, la crisi politica della repubblicana in quegli anni non aveva in nessun modo sciolto i nodi che l’avevano generata e al contrario aveva accentuato i problemi già emersi negli ultimi anni anche perché il sistema politico non si era rinnovato in maniera adeguata né sul piano delle istituzioni parlamentari né su quelle dei governi.
Un leader populista quale è stato, senza dubbio alcuno, Silvio Berlusconi aveva conquistato in pochi mesi il governo, le nuove forze politiche si muovevano in maniera incerta e i contrasti dall’una e dall’altra parte dello schieramento, avevano finito per favorire prima il suo ritorno al potere nelle elezioni del 2001 e lo svolgersi di una legislatura intera da parte della coalizione di centro-destra. Quindi un esperimento troppo breve con il ritorno al potere nel biennio 2006-2008 da parte di Romano Prodi che pure aveva portato al governo la coalizione di centro-sinistra nelle elezioni del 1996.
Ora c’è da chiedersi, dal punto di vista storico, cosa è successo nei rapporti tra Mafia e Stato, nel lungo periodo berlusconiano che ha segnato complessivamente il periodo più lungo del ventunesimo secolo e che non può dirsi ancora concluso giacché – malgrado il parziale e sempre incerto ritiro del leader populista che, proprio in queste ultime settimane, sembra molto poco disposto a lasciare per sempre lo scettro di comando – nei gangli vitali delle istituzioni dello Stato e del parlamento non è avvenuto affatto quel mutamento decisivo di uomini e di mentalità che sarebbe necessario per sostituire alle trattative striscianti tra mafia e stato un’offensiva politica e culturale in grado di combattere e quindi mettere con le spalle al muro con ogni mezzo le associazioni mafiose e i numerosi alleati che esse hanno mostrato di avere a livello politico, sociale ed economico.
Proprio la lunga esperienza politica del nostro paese mostra ormai che, in mancanza di un cambiamento netto e di una strategia politica e culturale coerente ad ogni livello, non è possibile archiviare una volta per tutte il succedersi, con interventi regolari, di trattative più o meno sotterranee, tra le associazioni mafiose e le istituzioni pubbliche e arrivare, in questo modo, a quella trasparenza di comportamenti e diffusa eguaglianza dei diritti e dei doveri di tutti gli italiani che pure sono scritte con chiarezza nella nostra carta costituzionale del 1948.