Sono stati in sciopero della fame per oltre un mese, e ora, con l’inizio del periodo del Ramadan, in segno di rispetto, hanno deciso interrompere il periodo di digiuno. Questa forma di protesta non è nuova all’interno dei Cie e ha precedenti anche macabri come quando, era il novembre 2010, i giornali riportavano la notizia di 10 immigrati reclusi presso il Cie di Corso Brunelleschi a Milano che avevano deciso ( e lo avevano fatto materialmente) di cucirsi la bocca con ago e filo. Dal 2010 ad oggi le condizioni all’interno dei centri di identificazione ed espulsione sono rimaste identiche e il rischio rivolta sta sempre dietro l’angolo. La tensione è per esempio palpabile a Gradisca di Isonzo, scenario in cui si colloca lo sciopero della fame attuato da tre immigrati che per oltre un mese, dal 18 giugno, hanno deciso di rifiutare i pasti, pur accettando l’acqua, viste le alte temperature.
A riportare la notizia solo qualche portale specializzato, come Melting pot, o sito di informazione indipendente grazie ai comunicati diramati dall’associazione di promozione sociale “Tenda per la Pace e i Diritti”.
Lo sciopero, riferisce l’associazione, sarebbe stato intrapreso per protestare contro le condizioni in cui sono quotidianmente costretti a vivere.
“ Il 18 giugno- si legge infatti nella nota pubblicata anche sul loro sito di riferimento http://www.memoriaeimpegno.org/ – proprio a seguito della visita di una delegazione parlamentare organizzata dal Partito Democratico, i migranti sono stati sottoposti a una dura perquisizione e sono rimasti per giorni chiusi nelle loro celle. “Vi siete comportati male”, sarebbe stato detto loro.
Infatti, un detenuto, proprio davanti alla delegazione, aveva deciso di aprirsi la testa sbattendola contro il vetro antisfondamento delle celle esterne, cadendo a terra svenuto; in molti hanno cercato di comunicare e denunciare ai parlamentari le dure condizioni carcerarie a cui sono sottoposti.”
Trattamento che, stando a quanto ancora si può leggere non avrebbe riguardato solo i reclusima : “… anche la giovane compagna di uno dei scioperanti: incinta di sette mesi, è stata quasi completamente spogliata e perquisita per poter ottenere solo cinque minuti di colloquio, divisi da un vetro. Un’umiliazione raccontata tra le lacrime, alla sua uscita. Un esempio che illustra bene come l’apparato all’interno dei Cie — luoghi di detenzione amministrativa, quindi formalmente non carceri — sia sempre più zona d’ombra fuori da qualsiasi concezione di rispetto dei diritti della persona.”