di Eric Salerno
E’ un siluro contro Israele, come sostiene preoccupata qualche analista di Tel Aviv o vicina alla sua politica? Oppure l’annuncio del ritrovamento di tracce di polonio, una sostanza radioattiva mortale, tra gli abiti di Yasser Arafat fa parte di un’operazione molto più complessa? E’ dalla morte repentina del leader storico dei palestinesi che si parla di possibile avvelenamento e di complotto. All’epoca era ovvio puntare il dito contro Israele anche se, tutto sommato, Arafat in vita, sempre più malato, stanco e incapace di scelte nuove per liberare il suo popolo dall’occupazione, faceva comodo a una parte della leadership israeliana poco interessata, come si è visto in questi anni, a far progredire il negoziato. Contro questa visione, però, c’era chi in Israele vedeva nella morte di Arafat anche il modo per togliere di mezzo l’unica persona unificante della sempre più spezzettata galassia palestinese.
A Ramallah e dintorni, nei giorni successivi alla morte del rais circolavano voci insistenti di complotto di palazzo. Con o senza l’aiuto esterno. Non si può escludere l’ipotesi Mossad, una struttura, comunque, che come tutti i servizi segreti del mondo non è sempre allineata con le direttive politiche. E si potrebbe teorizzare la complicità della Cia molto vicina ad alcuni dei personaggi più in vista dei servizi segreti palestinesi. Washington riteneva Arafat un ostacolo a una soluzione negoziale e corteggiava altri leader di Ramallah tra i quali l’attuale presidente Abu Mazen (Mahmoud Abbas), contrario alla lotta armata.
Il polonio, come sappiamo, fu usato negli anni dai servizi segreti russi per uccidere i suoi avversari o traditori. E’ un veleno sofisticato. Chi la prepara deve disporre, tra l’altro, di un reattore nucleare. Se Mosca ne possiede (e può averlo affidato a qualche amico nell’entourage del rais), sicuramente poteva essere presente negli arsenali di molti altri paesi, compresi ovviamente Stati Uniti e Israele.
Nei prossimi giorni, la salma di Arafat sarà riesumata e saranno compiuti accertamenti per vedere se esistono nelle sue ossa quelle tracce di polonio che potrebbero confermare l’avvelenamento. Nell’attesa, cerchiamo di capire il perché tutta la vicenda è tornata a galla dopo tanti anni. Per quale motivo Suha Arafat, la vedova del leader, impelagata in varie inchieste avviate per capire dove è andata a finire una parte dei fondi palestinesi gestiti direttamente dal rais, ha consegnato gli suoi effetti personali del marito ai giornalisti e al laboratorio scientifico di Losanna? Ma ancora più importante è capire per quale motivo la televisione qatarota, al-Jazeera, ha promosso l’inchiesta.
Suha, probabilmente, preferisce vedere l’attenzione del pubblico palestinese spostarsi da lei al ricordo del vecchio leader. E la tivù satellitare del Qatar? La sua è soltanto un’operazione giornalistica? E’ dall’inizio dell’anno scorso che al-jazeera partecipa per conto del suo proprietario, l’emiro del Qatar, alla “primavera” di altri paesi arabi. I suoi inviati e commentatori hanno sostenuto l’intervento armato contro Gheddafi mentre truppe speciali del Qatar compivano operazioni clandestine sul territorio libico. La stessa cosa avviene, oggi, in Siria. Chi cerca di capire quale sia l’obiettivo finale dell’emiro, rileva i suoi ingenti finanziamenti ai Fratelli musulmani. Sia in Egitto, dove il primo partito politico dell’Islam moderno ha vinto le elezioni e portato alla presidenza uno dei suoi leader, sia negli altri paesi toccati dalla “primavera”.
E’ possibile che nel mirino dell’Emiro (e di chi – Washington? – lo asseconda) sia la leadership laica dell’Olp e dell’Autorità palestinese con l’intento di rafforzare e accreditare Hamas (una costola dei Fratelli musulmani) nel quadro di un progetto, sempre più palese, di sostituire le vecchie impresentabili dittature sunnite con una forza islamica “moderata” in grado di convivere – senza spaventare – con l’Occidente e Israele?