“Che orrore, che orrore!”. Ripensando ai giorni della strage di via d’Amelio, mi vengono in mente le ultime parole pronunciate dal Kurtz di Josep Conrad, come compendio non solo di un giorno, ma di un’intera stagione segnata dal sangue e dalla morte, dal coraggio e dalla viltà, dal sacrificio e dal tradimento, dalla rivolta e dall’ignavia.
Tornammo a Palermo increduli, noi cronisti di mafia che le morti avevamo dovuto incessantemente raccontare. Pensavamo che l’apice fosse stato raggiunto con la strage di Capaci, ora tornavamo sgomenti in via D’Amelio, ancora calda dei cadaveri dilaniati di Paolo Borsellino, di Agostino Catalano, di Emanuela Loi, di Vincenzo Li Muti, di Walter Eddie Cosina, di Claudio Traina. Delle loro membra sparse sugli alberi, in quello scenario colombiano che ci accolse, in una città torrida e disperata.
Ricordo dolore, lacrime che s’impastano con il sudore, mani che si levano al cielo, la rivolta disperata di una città che si sente violentata, abbandonata, tradita e che, mentre applaude i suoi eroi dentro le bare, si scaglia contro i rappresentanti di quelle istituzioni che mentre commemorano i morti, ora lo sappiamo, trattano con i loro assassini. Allora non sapevamo tutto questo, ma era come se la gente che invadeva le strade e le chiese lo presagisse, come se percepisse quel che avveniva nel cuore di tenebra del potere, l’orrore, appunto.
La rivolta era cominciata nella notte del 19, con il corteo delle scorte, la protesta davanti alla prefettura, la furia degli agenti di scorta che si sentono carne da macello, era proseguita nei funerali degli agenti nella cattedrale di Palermo, arcigna e bellissima, quando la gente irrompe nel sagrato, violando l’assurdo divieto di un potere che si sente sotto accusa e cerca di tenerla lontana. L’ira si riversa sul capo della polizia, Vincenzo Parisi e sul capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro. Dalle file degli agenti dentro la chiesa partono urla, spintoni e schiaffi. Fuori gli applausi e le lacrime per le bare, le urla e i fischi per gli uomini del potere. Solo Leoluca Orlando e Peppino Ayala, tra i politici, sono accolti con affetto e riconoscenza.
Allora come oggi, la famiglia Borsellino rifiuta la commemorazione dello stato, celebrando il giorno dopo i funerali di Paolo nella sua parrocchia.
Dieci anni dopo, per il documentario che girai per la 7, L’uomo che doveva morire, (oggi lo si può vedere sul sito dell’Italia dei Valori) Andrea Camilleri mi disse: “Se c’è una morte annunciata è quella di Paolo Borsellino”.
Allora non sapevamo noi cronisti, non lo sapeva la gente, che Borsellino era andato alla morte consapevole di quella trattativa che uomini delle istituzioni avevano avviato con la mafia per cercare di fermare l’eversione stragista. Sapeva, o almeno intuiva, ma da vero uomo delle istituzioni, capace di rispettarle anche quando non lo meritano, cercò di fermare quella trattativa agendo con i mezzi che il suo ruolo gli affidava. I febbrili giorni che passano tra il 23 maggio e il 29 luglio trascorrono pieni di colloqui investigativi, di contatti istituzionali, di veglie di preghiera, di discorsi in pubblico nei quali Paolo Borsellino cerca di seminare, malgrado tutto, quel che il suo fraterno amico Giovanni gli aveva lasciato come eredità, la fiducia in quel “fresco profumo di libertà” che emana da una società quando essa, a cominciare dai giovani, si ribella al ricatto mafioso, ne disdegna i favori, ne respinge le logiche.
Tutto allora, nella memoria di quei giorni, assume i contorni di una tragedia greca, che si svolge in pubblico, con il popolo a fare da coro al sacrificio dell’eroe che va incontro alla sua morte, che sa di non potere evitare, perché la sua morte è il prezzo che si deve pagare alla difesa degli arcana imperii.
Tutto questo, allora. Ma oggi? Perché vent’anni dopo non sappiamo con certezza chi e perché condusse quelle trattative, nell’illusoria convinzione che concedere qualcosa sarebbe servito a fermare le stragi, smentita un anno dopo con gli attentati di Roma, Firenze e Milano? Perché ancora oggi sul banco degli imputati non ci sono gli uomini delle istituzioni che condussero quelle trattative, o che le subirono, ma i magistrati che con fatica cercano di appurare la verità?
La cosiddetta seconda repubblica (che non è stata altro in realtà che la degenerazione della prima) nacque nel sangue di quel biennio, nei misteri e nelle complicità di quella trattativa proseguita anche dopo. Se non si farà verità e giustizia su quei giorni tragici, la nostra democrazia non si affrancherà dai suoi legami con il potere mafioso che ne impediscono ancora oggi il pieno sviluppo.
La rivolta e la rabbia di Palermo dopo via d’Amelio chiedevano verità e giustizia. E’ quello che siamo costretti a chiedere anche oggi.