di Roberto Bertoni
Metti un pomeriggio di inizio giugno a Roma; metti la Sala del Carroccio (in Campidoglio) gremita di grandi firme e volti del giornalismo sportivo e di personaggi come Giacomo Losi, Sandro Mazzinghi, Sergio Brio, Nando Orsi e molti altri ancora; metti un consigliere comunale aperto e disponibile come Paolo Masini e un editore di valore come Roberto Mugavero della “Minerva Edizioni”; e metti infine un amico carissimo come Ugo Russo, per me una sorta di secondo padre, voce storica di “Tutto il calcio minuto per minuto” e autore di un saggio autobiografico dal titolo “Un microfono a due facce”, ed ecco che, all’improvviso, sembrano lontani anni luce i veleni dei nuovi scandali che hanno travolto il calcio, i calciatori inquisiti o addirittura arrestati, la politica distante dai cittadini, dalla cultura, dalla vita reale della gente. Ecco che, in pochi minuti, tutto sembra diverso, nuovo, pulito, nonostante molti dei protagonisti presenti nella sala avessero tanta esperienza e tanti aneddoti da narrare, tanti articoli, tante telecronache, tante partite, tanti gol, tanti incontri e tante emozioni da raccontare.
Nell’arco delle due ore circa di presentazione dell’opera di Ugo, abbiamo apprezzato i profumi e i sapori di uno sport che oggi pare perduto, dimenticato, annegato tra i sospetti e le partite truccate, le violenze negli stadi, il razzismo, la crudeltà di un mondo che sembra proprio aver smarrito se stesso.
Scorro le pagine del libro e sono vive, poi si animano attraverso le testimonianze dei suoi personaggi che sono quasi tutti lì, insieme a noi, a ricordare e a rievocare, a far rivivere i suoni, i colori, le attese, le speranze, le delusioni di una partita che solo gli appassionati possono aver conservato nella memoria o magari neanche loro, ma che appena ne ascolti un frammento torna alla mente e sembra di essere nuovamente lì, allo stadio o davanti al televisore o incollato alla radio, con le mani giunte, mentre la voce di Ugo e dei suoi colleghi accompagna le azioni e ci fa piangere o esultare, gridare di gioia o scendere lacrime amare lungo il viso.
Ho avuto spesso l’impressione, in quel pomeriggio, di trovarmi all’interno di un romanzo di Márquez, là dove storia e vita si intrecciano, realtà e fantasia vanno a braccetto e a nessuno importa più se un ricordo sia autentico o romanzato, se sia tutta la verità, nient’altro che la verità o se ci sia un retrogusto romantico nel quale la passione ha il sopravvento sulla razionalità del narratore.
Ho apprezzato la sobrietà e la fermezza di Sergio Brio mentre chiedeva squalifiche a vita per chi fosse rimasto coinvolto nelle squallide vicende delle quali siamo venuti a conoscenza e, nel frattempo, recitava quella poesia laica che era la mitica formazione della Juve trapattoniana, la sua Juve, una delle più forti di sempre: “Zoff, Gentile, Cabrini…”: quasi meglio delle terzine dantesche.
Ho riflettuto a lungo sui valori veri, ruspanti, genuini di Sandro Mazzinghi e sulla sua serenità conquistata con fatica e sudore, con immensi sacrifici e con l’umiltà orgogliosa di chi non ha mai chiesto nulla a nessuno, ha vinto e ha perso con le sue forze, è caduto e si è rialzato, non ha accettato i soprusi né tanto meno le smancerie di chi ha tentato di salire sul suo carro quando era all’apice della gloria e ne è prontamente sceso quando ha dovuto fare i conti con le asprezze e gli inconvenienti che spesso caratterizzano la carriera di uno sportivo.
Ho pensato a lungo mentre parlava Giacomino Losi, soprannominato “er core de Roma”: ho pensato al calcio di un tempo, un calcio limpido, semplice, onesto, nel quale tutti giocavano alla stessa ora, alla luce del Sole, davanti a spalti gremiti, in domeniche scandite dalle inconfondibili voci di Carosio, Ciotti, Ameri, dagli arbitraggi del signor Lo Bello di Siracusa, dalle magie di Charles, Sivori, Boniperti, Altafini; un calcio nel quale nessuno si sarebbe mai permesso di vendere una partita per soldi.
Non è mai stato un ambiente povero, quello del calcio, anzi, ma era una questione di valori, di ideali, di princìpi: chi ha giocato all’oratorio o si è sporcato nel fango dei campetti di provincia, magari con ai piedi delle vecchie scarpe del padre, difficilmente avrebbe potuto cedere alle lusinghe dei cosiddetti “zingari” e degli altri farabutti che ruotano da tempo intorno a questo sport.
Infine, mentre Ugo rivelava il suo lato artistico con una perfetta imitazione del cantante greco Demis Roussos (col quale la somiglianza fisica è impressionante), mi sono soffermato sul valore di un uomo e di un giornalista che ha girato il mondo, ha incontrato persone straordinarie e persone semplicissime, ha sempre preso sul serio la sua professione senza mai prendersi troppo sul serio, senza scadere nella saccenza né voler fare sfoggio delle proprie conoscenze.
Ho riflettuto a lungo, quel pomeriggio e quella sera, e sento di doverlo profondamente ringraziare per quest’ennesimo regalo, per avermi fatto vivere emozioni che non avevo mai vissuto e per avermi fatto rivivere i sogni e le atmosfere magiche di quand’ero bambino ma, soprattutto, per aver riscattato, nel suo grande piccolo, un mondo devastato dal denaro, dall’affarismo e dai troppi interessi che vi ruotano attorno.
All’inizio delle sue telecronache, Ugo è solito salutare gli ascoltatori con questa frase: “Un cordiale saluto a tutti voi, cari amici”. Perché, in fondo, ognuno ha la sua personalità, il suo stile, il suo modo di rompere il ghiaccio e di entrare in sintonia con il pubblico, tentando di instaurare un rapporto di fiducia e di stima reciproca. Chiunque abbia lavorato in radio, infatti, sa quanto siano importanti queste doti e chiunque abbia trascorso interi pomeriggi a seguire “Tutto il calcio minuto per minuto” sa quanto sia gradevole ritrovare delle voci amiche, familiari, anche quando la propria squadra del cuore perde o gioca male. E allora: un cordiale saluto a te, caro Ugo.