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Trattativa: l’ira del Quirinale

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Tanto tuonò che alla fine piovve: era inevitabile che le polemiche di questi giorni, seguite alla pubblicazione delle intercettazioni tra l’ex presidente del Senato Nicola Mancino e il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, provocassero una reazione ufficiale. Il presidente Giorgio Napolitano, più volte tirato in ballo dalle ricostruzioni giornalistiche delle convulse telefonate aventi per oggetto le inchieste sulla trattativa tra mafia e istituzioni nel biennio ‘92/’94, ha voluto prendere posizione per respingere quella che ha etichettato essere «una campagna di insinuazione e sospetto sul Presidente della Repubblica e i suoi collaboratori costruita sul nulla».

La lettera alla Cassazione
Napolitano, pur stigmatizzando i giornali per «interpretazioni arbitrarie e tendenziose, talvolta persino versioni manipolate», ha dichiarato di voler rispondere con serenità e massima trasparenza alle critiche al suo operato e a quello dei suo collaboratori. Respinta al mittente quindi l’accusa di essere intervenuto impropriamente, lui e il suo staff, a sostegno delle lamentele espresse da Mancino in merito al presunto accanimento giudiziario nei suoi confronti, messo in atto dai magistrati che stanno indagando sul contesto in cui si verificarono le stragi di Capaci e via D’Amelio. Una gestione trasparente della vicenda che spiega il motivo per cui è stata data comunicazione della lettera inviata dal segretario generale della presidenza della Repubblica Donato Marra alla Procura generale presso la Cassazione. «I cittadini possono stare tranquilli. Terrò fede ai miei doveri costituzionali»: ha concluso il capo dello Stato, rivendicando così la lettera alla Cassazione come atto rientrante nelle prerogative del Quirinale, teso a garantire l’azione della magistratura e volto al rapido accertamento della verità su una stagione di intrighi e violenze. Le lamentele di Mancino, quindi, riprese nella missiva siglata da Marra, riguardanti la mancanza di coordinamento tra le diverse procure che indagano sulla trattativa, sarebbero state recepite ee rilanciate opportunamente, proprio per caldeggiare una uniformità d’approccio alle inchieste in corso, onde evitare incoerenze al momento degli esiti processuali, tutti ancora da determinare, nel quadro dei nuovi scenari. Ricordiamo che la lettera in questione si chiudeva, esprimendo l’auspicio del Colle perché fossero adottate misure volte a «dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali».
I due fronti
Fin qui la replica del presidente Napolitano, fortemente disturbato dalla sola possibilità che si possa mettere in dubbio la sua buona fede. Quel che emerge dalle intercettazioni disposte dalla Procura della Repubblica a carico di Mancino resta comunque materia incandescente tanto che ormai si sono creati due fronti: quanti ritengono che l’intervento sulla Cassazione da parte del Colle sia stato inopportuno e foriero di inquinamenti e quanti, al contrario, vedono nelle critiche aspre al capo dello Stato una oscura manovra destabilizzante, atta a mettere in crisi il governo Monti e andare rapidamente alle urne. Singolare è che si siano trovati su fronti opposti, due giornali come “Il fatto quotidiano” e “La Repubblica”, uniti fino a qualche mese fa nell’incalzare a colpi di inchieste e domande l’ex premier Berlusconi. Le firme più autorevoli de “Il fatto”, Padellaro e Travaglio, sostengono che Napolitano e il suo staff avrebbero sbagliato nel rilanciare le geremiadi di Mancino alla Cassazione e ribadiscono il diritto della stampa a criticare l’operato delle istituzioni. Viceversa, sull’altro fronte de “la Repubblica”, il fondatore Scalfari sostiene l’assoluta buona del presidente, invitando anche a non continuare in questa opera di strisciante delegittimazione, utile solo a chi vuole sfasciare tutto. E se i giornali sono divisi, anche la politica non è da meno. Il presidente della Camera Fini parla anche lui di irresponsabile delegittimazione e Bersani gli fa eco, invitando ad evitare manovre attorno al Quirinale. E se Di Pietro, mentre continua a chiedere una commissione d’inchiesta parlamentare sulla vicenda della trattativa, ricorda che «nessuno, neanche il presidente della Repubblica, è al di fuori della legge», invece Casini imputa la responsabilità degli attacchi al capo dello Stato a «schegge della magistratura che forse hanno obiettivi intimidatori» e mette sotto accusa quello che chiama «perverso circuito mediatico giudiziario».
Telefoni roventi
Sarà pure un perverso corto circuito quello che si è instaurato tra procure e redazioni, ma quel che è certo che diventa sempre più difficile spiegare il contenuto delle conversazioni telefoniche che hanno avuto come protagonista l’ex presidente del Senato Mancino. Proprio in virtù delle intercettazioni disposte, è risultata acclarata la volontà di Mancino di sottrarsi al confronto con gli altri ex ministri Martelli e Scotti, davanti ai magistrati di Palermo. Secondo Martelli, lui e Mancino avrebbero parlato degli incontri dei carabinieri del ROS con Ciancimino, mentre l’ex titolare del Viminale ha sempre negato questa circostanza.
Contraddizioni che fecero dichiarare al pm Nino Di Matteo, dopo la deposizione di Mancino nell’udienza del 24 febbraio del processo al generale Mori per la mancata cattura di Provenzano: «Emergono evidenti contraddizioni tra diversi esponenti delle istituzioni, riferiscono cose completamente diverse, quindi qualcuno mente». E, nell’inchiesta sulla trattativa, ora Mancino è indagato per falsa testimonianza.
In quei giorni, dopo la deposizione palermitana, a leggere i brogliacci delle intercettazioni, vediamo che Mancino era veramente agitato e fuori di sé e D’Ambrosio pressato costantemente, come ha confermato ai pm palermitani che lo hanno sentito a marzo e a maggio. Di fronte ai timori manifestati da Mancino e alle possibilità adombrate di un intervento risolutore sul procuratore di Palermo Messineo o sul collegio giudicante, il consigliere giuridico del Quirinale D’Ambrosio rispondeva che, visti i poteri di coordinamento in capo alla DNA, «l’unica cosa è parlare con il procuratore nazionale antimafia». «Io gli voglio parlare perché sono tormentato»: così al telefono si esprimeva l’ex ministro con il magistrato in forza al Quirinale. Sta di fatto che il 4 aprile parte la lettera alla Procura generale della Cassazione, firmata dal segretario generale Donato Marra e che la Cassazione, alle prese con il cambio tra i pg Esposito e Ciani, chiese una relazione alla DNA in merito alle valutazioni espresse da Mancino e rilanciate dal Quirinale con un intervento ufficiale. Altre questioni sono stato oggetto di conversazione tra i due. In primis, la diversa valutazione del valore probatorio delle dichiarazioni rese da Gaspare Spatuzza, non utile per la Corte d’Appello ai fini della decisione sul senatore Dell’Utri e, invece, valorizzato nell’ambito delle indagini sulla trattativa dalle tre procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze. E poi anche la nomina di Francesco Di Maggio al DAP, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: l’ex magistrato, scomparso nel 1996, difficilmente si sarebbe prestato ad intervenire per allargare le maglie dell’art. 41 bis. Infatti, D’Ambrosio spiega in una delle telefonate intercettate che  l’alleggerimento del 41 bis riguardava Mori, polizia, Parisi, Scalfaro e compagnia». Insomma, siamo proprio nel bel mezzo di una calda estate italiana e, per il momento, la temperatura non accenna a scendere nemmeno sul colle più alto della Repubblica.

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