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Terremoto: Napolitano in Emilia

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Ieri l’Italia ha fatto la sua giornata di lutto nazionale per i morti dell’Emilia Romagna, anche se nessuno se n’è accorto qui a Roma, con un milione di spettatori ancora eccitati dall’esibizione domenicale a Ostia di aerei da guerra belgi, olandesi e delle nostre Frecce Tricolore: sì, proprio quelle che la sobrietà ha impedito che chiudessero la miniparata del 2 giugno. Domani il presidente Giorgio Napolitano sarà fra i terremotati, a portare l’immagine e l’impegno dello Stato “prima che anche la speranza muoia”, come ha detto una signora modenese esausta della terra che trema. E a me, forse per dare un personale senso al lutto nazionale, m’è venuto di rileggere anche questa pagina del saggio La presidenza Saragat, scritto anni dopo dal suo consigliere per l’informazione Ugo Indrìo, già corrispondente romano del Corriere:

“Il 1968 cominciava con un avvenimento infausto. Il 15 gennaio nella valle del Belice si scatenava un terremoto che lasciava sotto le macerie oltre trecento morti e un migliaio di feriti e distruggeva Gibellina, Salaparuta e Montevago. Le popolazioni fuggivano all’aperto in pieno inverno. Il giorno 16 Saragat era sul posto, il 20 decideva di accogliere al Quirinale dieci famiglie di sinistrati, i capifamiglia erano tutti invalidi di guerra o del lavoro. Ancor oggi (1971) sono al Quirinale, come a Villa Rosebery a Napoli alcune famiglie di Pozzuoli, dopo il bradisismo che ha colpito quella città (…) Erano esempi per dire a tutti gli italiani e specie ai governanti cosa occorreva fare. Infatti il governo stanziava mezzi e si moltiplicavano i soccorsi, le tendopoli, le baracche. Ma ancora oggi, dopo tre anni, le popolazioni del Valle del Belice non sono state sistemate, a causa dei conflitti di competenza tra le varie burocrazie e la lentezza delle procure…” (vedesse oggi, Indrìo, dopo quarant’anni).

Domani sarà Napolitano ad avere fra le mani questo grano del rosario tragico, che spetta ad ogni presidente snocciolare: a Einaudi nel Polesine, a Leone nel Vajont, a Saragat a Firenze, ancora a Leone nel Friuli, a Pertini in Irpinia, a Ciampi a San Giuliano, allo stesso Napolitano a L’Aquila e in Luguria. Sono i giorni dell’incontro tra il vertice dello stato e il popolo in un faccia a faccia drammatico e sincero. Prima era capitato ai re, Vittorio Emanuele II a Roma con l’esondazione del Tevere, Umberto I a Napoli col colera e a Casamicciola per il terremoto che anticipò Reggio e Messina, Vittorio Emanuele III nel Fucino, Margherita nella sua reggia di via Veneto da lei trasformata in ospedale per feriti e mutilati della grande guerra…

Domani Napolitano sarà fra gli operai e gli imprenditori, che hanno lasciato colleghi di lavoro sotto i capannoni polverizzati (non tutti “a regola d’arte”, direi al presidente Squinzi) , fra gli artigiani e i favolosi bancarellari, fino a dieci giorni fa commercianti, che si sono inventati i banchetti davanti alle macerie e continuano a vendere quel che avevano venduto nei negozi, così le famiglie si risparmiano almeno la scodella delle cucine da campo e la vita “continua”, in qualche modo; incontrerà i sindaci e i parroci che hanno perduto (qualcuno anche la vita) quanto di più genuinamente popolare si esprimeva nel gusto edilizio di altri secoli; incontrerà, e ci auguriamo che ammonisca e strigli burocrazie e magistrature, affinché non s’adagino, come a Gibellina, nei commi e nei regolamenti che i nostri ministri e legislatori non hanno mai saputo e voluto scrivere in italiano, trasformando ogni parola in una trappola, un ritardo esasperante per chi ha bisogno di risposte in 24 ore. Regola che dovrebbe valere ogni giorno, per tutti i 59 milioni di italiani, ma almeno sia introdotta con decreto catenaccio per chi è colpito dal dramma, e poderosi calcioni nel sedere a burocrati e Azzeccagarbugli.

Nessuno si scandalizzerà se il presidente alzerà di qualche decibel, come fece Pertini, i suoi toni sempre razionali e pacati: è stato questo il senso del suo volere e presenziare a Roma la festa della repubblica, perché la Costituzione, che fonda la repubblica “sul lavoro”, tutto il lavoro, di dipendenti e di imprenditori, di magistrati e di soldati, di insegnanti e di studenti, di donne e di uomini, di giovani e anziani, non sia rinnegata da verminose burocrazie che si nutrono anche delle cancrene. Napolitano ha celebrato il rito, come s’addice e come hanno sempre fatto i sacerdoti laici dello Stato, affinché i fedeli e gli indifferenti sentano l’antifona per i prossimi mesi: anche se le torbide notizie dell’euro non rassicurano su congrui aiuti dello stato e dell’Europa; ma proprio per questo ridestano negli italiani le loro virtù migliori, che si manifestano nei giorni delle sventure, e gli consentono perfino di cambiare regime di vita, come già si nota nell’andamento di abitudini e consumi fino a ieri ritenuti primari.

Ma basta coi furbi. Si è letto di ronde o di imminenti ronde di militari contro gli sciacalli che rovistano fra le rovine. Ma gli sciacalli sono anche quelli che si combattano con la finanza, con i carabinieri e la polizia, con le procure, con uffici fiscali meno oziosi nell’indagare le virgole delle dichiarazioni oneste e più occhiuti nel colpire quelle disoneste, di personaggi e categorie che non hanno bisogno di essere nominati. L’attuale concorso di circostanze impone anche per loro di mettere mano agli euro, che in queste settimane continuano a lasciare il paese a milioni, mentre il fisco è alle prese con qualche trasferimento di qualche euro anche da un padre a un figlio; e mentre la ministra Fornero promette più tagli alle “generosità” dello stato sociale: espressione non meno infelice, in questo momento, dei “capannoni costruiti a regola d’arte”. Non si potrebbe attendere qualche giorno più vuoto di malauguri, per intristire o irritare gli italiani con parole in libertà?


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