Tanti si candidano, nessuno dice per fare cosa. E il nuovo Cda della Rai rischia di riproporre antichi vizi e più affamate e labili virtù. Il mio ‘programma’.
Primo, non rubare. La tentazione, ponendosi il problema della ormai indilazionabile riforma Rai, è stata quella di rovesciare per l’occasione l’ordine sacrale dei dieci comandamenti. Letti sia secondo la tradizione ebraica seguendo il testo dell’Esodo o nella suddivisione più classica della tradizione cattolica secondo il testo del Deuteronomio. Per tutti resta che il settimo comandamento ci dice «Non rubare». Imperativo categorico ma non così facile da interpretare come appare. Per capirci: incassare un ruolo gerarchico per raccomandazione di appartenenza è o non è rubare qualcosa a tuo vantaggio a danno di altri? Oppure, non assumere decisioni scomode per accondiscendere a favori di convenienza, è o non è rubare meriti e diritti di altri? Più facile dire delle indennità percepite per attività non esercitate, delle ricevute ballerine di taxi e di pasti, dell’auto di servizio usata a fini privati. Fruire del ruolo aziendale a puro vantaggio personale è o non è rubare? Ma forse siamo all’eccesso di semplificazione. Non a caso le “Tavole della legge” si concedono ben dieci imperativi. Di fede e di virtù. Il resto rischierebbe di risultare bestemmia per i credenti, quindi mi fermo per non perdermi in forzature teologiche improprie.
Ti tengo per le tasche. Più laicamente mi appello al codice civile. Chi sarà chiamato ad amministrare la Rai, come in qualsiasi altra azienda, tanto più se pubblica, risponde in proprio per errori ed omissioni che procurino danno alla struttura amministrata. Formalmente così già è, e non funziona. Quando mai una operazione di nomina clientelare non è stata motivata da alate e nobili esigenze superiori? Qui servirebbero davvero le “Tavole della Legge” sul primato di fedeltà, senza scomodare (primo e secondo comandamento) il nome di Dio. Immaginiamo invece che chi amministra sia tenuto a regole vincolanti ma soprattutto pubbliche. Esempio: nomina del prossimo Direttore generale (o amministratore delegato, se mai fosse). Qualsiasi nomina deve partire da candidature plurime, pubbliche e motivate altrettanto apertamente nel si o nel no. Le famose “terne” sempre evocate e mai applicate. Errori in buona e cattiva fede che arrechino danno all’azienda implicano sempre e comunque la responsabilità risarcitoria. Ti tengo per le tasche. Il Cda ma soprattutto il suo braccio esecutivo. Direttore generale di oggi e di ieri, come prevede sia il codice civile sia -sveglia!- la Corte dei conti (e in alcuni casi delle Procure della Repubblica).
Chi firma paga. Facciamo un esempio. Un direttore generale a caso rileva un uso “improprio” della carta di credito aziendale. Non solo, ma viene posto a conoscenza dell’ubiquità di un suo autorevole sottoposto, registrato contemporaneamente in luoghi diversi. Procedimento disciplinare obbligatorio, dicono le norme, con sanzioni previste dai regolamenti interni. Se poi la mancata contestazione consente all’ubiquo spendaccione formalmente innocente di intentare una successiva causa alla Rai, il danno aziendale che ne derivasse dovrebbe essere imputato a chi non ha esercitato nel tempo e nel modo dovuto i suoi obblighi. Non solo: alcuni comportamenti sono messi in atto coinvolgendo la responsabilità personale di altri vertici aziendali che, omettendo osservazioni critiche o avallando omissioni illegittime, si rendono di fatto complici del danno aziendale procurato. Insomma, la responsabilità della gerarchia di comando che non può limitarsi alle prebende del ruolo, ma anche alle relative responsabilità. Basta col motto storpiato “Usi obbedir tacendo e tacendo incassar” (chiedo perdono all’Arma dei carabinieri). Le firme e gli avalli sotto atti esecutivi non possono continuare ad essere pura e semplice gerarchia, ma corresponsabilità diretta e in solido.
E poi l’esercito. Non per autodifesa, visto che sto per parlare di giornalisti, ma per definire con un minimo di regole il meccanismo della gerarchia in una azienda-mostro che è riuscita a mettere su un esercito di generali. Peggio di Franceschiello. Con noi giornalisti protagonisti di tante situazioni equivoche. Perderò amici, ma da Carlo Verna a Roberto Natale (Usigrai e Fnsi), tutti sanno che affermo purtroppo il vero. Col sindacato che qualche volta s’è opposto e qualche volta -opinione personale- ha cercato il più facile consenso interno. Ho evocato l’esercito per comoda attualità. Come ha denunciato recentemente il ministro-ammiraglio alla difesa Di Paola: «Abbondano gli alti gradi, scarseggia la truppa. I generali sono ben 425, mentre c’è carenza di volontari in servizio permanente. Elevato anche il numero di marescialli, addirittura 55 mila rispetto ai 25 mila previsti». Mi mancano i dati di confronto ma a occhio azzarderei che la Rai, in proporzione, forse ha fatto di più e di peggio visto che nelle forze armate i 425 generali comandano su 183 mila effettivi. Stando ai dati più recenti, la Rai arruola e retribuisce circa 10 mila dipendenti fissi che, aggiunti a precari, apprendisti e part time diventano 13.300 distribuiti tra consociate e casa madre Rai. Mamma, appunto.
La piramide rovesciata. Un esercito di 350 giornalisti dirigenti e 1600 giornalisti di cui, più della metà comunque graduati. Nel settore produttivo amministrativo risultano 250 dirigenti e 1120 quadri per una “truppa” di circa 7000 persone (tra dipendenti fissi e precari). Un rapporto di 1 a 5 tra apice e impiegati. Nelle redazioni -abbiamo visto- è molto peggio. Con rischio di trovare più vice direttori che redattori ordinari. E questo, cari colleghi, caro sindacato, non può più reggere a lungo. Conosco redazioni dove non esistono soldati. Conosco redazioni dove il succedersi di “comandanti” ad alternanza politico-lottizzatoria accelerata ha prodotto cinque “Capo redattore centrale” (aggettivo solo al singolare). Centrale a che, a chi? Forse occorrerà tornare a parlare di esercito dove, per ogni “Reparto” (Brigata, reggimento o battaglione che sia) sono previsti precisi e vincolanti ruoli di comando e di responsabilità. Rigorosamente in proporzione alle persone da comandare! Una piramide che non si tocca, e il cambio dei collaboratori stretti, pretesi dall’eventuale nuovo “comandante”, o l’esercito trova nuovi incarichi per chi vuole alternare o degrada gli incapaci. Premesse le garanzie ai diritti inviolabili dei singoli, in alcuni casi non sarebbe stato affatto male.
Oltre il dettaglio. I numeri e nomi non sono sempre facili da decrittare. Il Tg-Anonimo di cui stavo parlando, prende nome in questo passaggio solo per il suo rilievo aziendale. Volessimo parlare del Tg1 (esempio a caso) saremmo costretti a dire che è stato massacrato nella sua funzionalità e logica redazionale, non soltanto negli ultimi 4 anni. Obbligo di pluralità critica trasversale. Il doppio incarico di line e di conduzione è, ad esempio, una eredità di Riotta. Se vogliamo tradurre in politica, centrosinistra. Poi Minzolini ha aggiunto il suo carico da novanta. Da solo? Contro l’ufficio del personale? Contro la direzione generale? Contro affari legali e sindacali (se mai sono stati sentiti)? Il sindacato -per la sua parte – ha certamente portato avanti rivendicazioni ritenute legittime, ma la follia di una gerarchia rovesciata è figlia dell’occupazione partitica. Dei capricci del potente-prepotente di turno. Che fa pesare le sue clientele personali sui costi aziendali con i soldi di tutti. E l’Usigrai, detto con l’umiltà da “militante della prima ora”, deve smettere di difendere l’indifendibile. Si narra di richieste di risarcimento di indennità non percepita per impedimento personale ad esercitare la prestazione!
Direttore delle mie brame. Numero e ruolo. Intanto troppi capi e, nel campo giornalistico, nessun premio Pulitzer. Le contraddizioni più clamorose: i Giornali Radio prima impacchettati e poi spacchettati per distribuire qualche favore politico da “Con-direttore”. Triste mercatino da suburra. Gr e Tv Parlamento separati (e con che gerarchie redazionali!). Da dementi. I Corrispondenti esteri decapitati e regalati come direzione risarcitoria a Minzolini. Follia. Se Augusto -in attesa di sentenza penale- avesse insistito nella causa di lavoro magari vincendola, bastava spedire il conto al dottor Mauro Masi e firme di avallo. Nell’insieme, da giornalista quarantennale, contesto di fatto l’articolo 6 del Contratto nazionale di lavoro. L’autonomia del direttore giornalistico dalle eventuali pressioni e condizionamento che vengano dall’Editore o altri poteri forti! Più che alla bugia, in questo caso siamo alla vera e propria presa in giro. E tutti lo sappiamo, colleghi. Quindi, dal prossimo contratto, cara Fnsi, rivediamo l’articolo 6 (nella forma attuale), che oggi di fatto avalla prevaricazioni di parte più che garantire troppo labili virtù di terzietà e autonomia giornalistica.
Pane al pane e vino se ce n’è. Per ottenere l’esecrazione e forse il rancore imperituro da parte di tutti (o quasi) gli ex colleghi Rai, alcuni dettagli di moralizzazione che propongo. Riassumo e preciso. 1) Vincolo trasversale di “terna” per proposte di incarico e/o promozione e motivazione pubblica del voto pro o contro. Nei ruoli esecutivi, l’eventuale ipotetica assenza di alternative impone sempre la motivazione pubblica. 2) Organigramma redazionale definito in gerarchie funzionali non modificabili con nomine sovrapposte, sino ad esaurimento dell’eventuale esubero. 3) Diritti e doveri sono concetti paritari non scindibili. Ai diritti da tutelare debbono corrispondere i doveri da documentare. Soprattutto rispetto a prestazioni “straordinarie” onerose che non possono basarsi su una buona fede non scontata dei singoli. Detta fuori dai denti, cari amici della Rai (o ex amici?), basta furbetti privilegiati nell’Italia della crisi che minacciano il futuro di tutti. Basta amministrativi codardi o incapaci, basta creativi delle reti che non creano, basta giornalisti che inseguono il proprio video-tornaconto prima di capire (e non inseguire) una notizia.
La Rai è un bene di tutti. Io farò sempre l’impossibile per difenderla dagli attacchi esterni e dai tradimenti interni. Con una curiosità personale di cui mi scuso prima ancora di esprimerla. Fosse mai che in Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai un solo deputato e senatore prendesse in considerazione il mio nome per fare il Consigliere di amministrazione? Il mio percorso professionale Rai è abbastanza noto e neppure di poco conto. E ora è noto anche il mio eventuale programma di governo. Ma risulterebbe provocazione sprecata. Discutiamo invece su quanto ho detto. In casa Rai, innanzitutto. Sono gradite osservazioni, critiche (limitate gli insulti). Per chi non lo avesse ancora capito, in televisione e nei quotidiani, il futuro è qui. Sul web. Globalist come syndacation per ora soltanto scritta. Oggi è già, e sarà sempre più, web-tv. E le Radio e Tv ripetitive di oggi, così come sono state pensate per lotti di appartenenza, sono prigioniere di una informazione da museo. Cotte, stracotte. La notizia oggi corre sul web -correrà sempre di più- e sui canali All News che la Rai si ostina a trascurare nonostante la sua qualità. O l’azienda lo si aggiorna rapidamente o sarà la fine. La storia non concede sconti neppure ai lottizzati.