Sentenza Aldrovandi, al ministro Cancellieri scappa il condizionale. Appello per introduzione in Italia del reato di tortura

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Il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri non conosce gli atti dell’inchiesta sulla morte di Federico Aldrovandi, non ha letto le motivazioni delle sentenze di merito di primo e secondo grado, forse non è ancora stata informata che ora la condanna è definitiva:  la corte di cassazione ha rigettato i ricorsi dei quattro imputati, quattro poliziotti ora pregiudicati, ma ancora regolarmente in servizio, hanno ucciso  un ragazzo di 18 anni, “pestato per mezz’ora come se fosse un mostro” secondo l’espressione usata dal procuratore generale della Cassazione. Al ministro Cancellieri, tecnico  improvvisato di un governo provvisorio, consigliamo la visione questa sera su RaiNews ore 21.30  del film “E’ stato morto un ragazzo” di Filippo Vendemmiati, già vincitore del David di Donatello e già trasmesso dai Rai Tre  poco più di un anno fa. Chissà se il ministro dell’interno è più sensibile alla cultura cinematografica che a quella giuridica perché il suo commento alla sentenza della cassazione lascia allibiti.

“In questi casi ho grandissimo rispetto per quello che decide l’autorità’ preposta perché’ guai a mancare di rispetto e fiducia nella magistratura”,  esordisce il ministro. In questi casi?  Perché ce ne sono altri invece in cui  è lecita la mancanza di rispetto? O invece si vuole insinuare “la giusta distanza” da una sentenza definitiva che condanna uomini in divisa? E infatti il ricorso successivo al tempo condizionale è indicativo di quanto bassa sia  invece nella sostanza la considerazione che malcela il ministro verso questa sentenza.  Il titolare dell’interno  aggiunge subito dopo  che  ”se ci sono stati, come sembrerebbe, degli abusi gravi, e’ giusto che vengano colpiti”. Sembrerebbe, abusi ? Ministro è una sentenza definitiva, glielo hanno spiegato?
Al ministro lo spiega il giudice Luca Ghedini, magistrato della corte d’appello di Bologna , estensore delle motivazioni della sentenza di secondo grado:
“Il Ministro mostra, con la sua improvvida affermazione, di ignorare due cose: da un lato, l’efficacia del giudicato nel nostro sistema processuale penale, per cui, una volta esauriti i mezzi di impugnazione ordinari, i fatti oggetto del processo e la loro conseguente qualificazione giuridica si danno per acquisiti e, dall’altro, che la sentenza della Corte d’Appello di Bologna – che in tutta evidenza il Ministro non ha letto – nel confermare quella del Tribunale di Ferrara, non si limita ad evidenziare “abusi”, ma condotte antigiuridiche ben precise, lumeggiando, altresì, significative opacità nella gestione della vicenda da parte della Questura di Ferrara.
I “gravi abusi” si chiamano “omicidio colposo”.

Anche i genitori di Federico, Patrizia Moretti e Lino Aldrovandi, hanno qualcosa da precisare e scrivono tra l’altro al ministro dell’interno:
Il Ministro dell’Interno, (ndr. Allora Giuliano Amato) nei primi mesi successivi alla morte di Federico, ci aveva voluto incontrare   ed aveva chiesto per noi che si facesse luce su quanto accaduto attraverso un regolare processo.
Oggi dopo sette anni di processi , tre gradi di giudizio , il Ministro Dell’Interno usa il condizionale o la formula dubitativa per interpretare il caso Aldrovandi.
Perche’ mette le mani avanti dichiarando rispetto per la magistratura mettendone poi in dubbio l’operato?
Quel condizionale signor Ministro , e’ fuori luogo , inopportuno e poco rispettoso delle Istituzioni.
Sono stati commessi abusi tanto gravi da provocare la morte di un ragazzo appena maggiorenne incensurato, abbiamo pazientemente aspettato 7 anni di processo e tre sentenze per veder riconosciuta quella verità terribile che sempre abbiamo saputo.
Auspicheremmo uguale rispetto da parte Sua.
Patrizia e Lino Aldrovandi, genitori di Federico , morto per colpa di 4 poliziotti tutt’ora in servizio.

Da Fabio Anselmo, legale della famiglia Aldrovandi, e di altri casi simili viene un appello che Articolo 21 fa proprio e rilancia: l’introduzione e il riconoscimento in Italia del reato di tortura. Ci scrive l’avvocato Anselmo:
“Quando si parla di legge sulla tortura , pochi comprendono la reale portata del problema. La convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, firmata a New York il 10-12-1984, definisce come ” tortura” qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o e’ sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito.
Questi atti di sofferenza e dolore che vengono inferti sulla persona affidata in custodia, sono puniti dal nostro codice da sanzioni lievi in quanto parametrate all’entità delle lesioni eventualmente provocate in danno della vittima che le subisce.
La ripetitività in un unico contesto, di questi atti o comportamenti non influisce sostanzialmente sul trattamento sanzionatorio, e ciò  a prescindere dalla intensità del dolore o delle sofferenze anche psicologiche inflitte. La pericolosità di questo sistema e’ fin troppo evidente. Su un piano giudiziario , tralasciando ogni considerazione di carattere etico o politico, la ripetitività di tali comportamenti in danno  per esempio di un’ unica vittima e’ in grado di produrre danni processuali incalcolabili nel momento in cui spesso essa viene indotta a confessare responsabilità o delitti in realtà mai commessi, lasciando quindi l’azione penale in balia dell’arbitrio di coloro che con tali modalità non si fanno scrupolo di condurla. Ma la pericolosità di tale sistema si allarga alla stessa tutela della vita della vittima quando essa e’ costretta a subire sofferenze e dolore inferti ancora ripetutamente in un unico contesto.
Il caso Aldrovandi ne e’ finalmente il primo esempio giudiziariamente riconosciuto. Ma anche Riccardo Rasman Michele Ferulli e Giuseppe Uva ne sono tragica testimonianza.
Le lesioni in se’ e per se’ subite dal povero Federico non sarebbero mai state mortali se non inferte in modo tragicamente ripetitivo e tale dametter in crisi le sue capacita’ di sopravvivenza.
Quando per Giuseppe Uva si parla di morte da stress come per Michele Ferulli si tratta si eventi mortali che sopravvengono in un contesto di ripetute violenze che singolarmente considerate non possono mai esser considerate mortali ma che complessivamente sono in grado in vari modi di fiaccare ogni energia vitale delle vittime per  metterle in crisi fino a che non sopravviene la morte.
Occorre mutare la nostra cultura e prendere atto che queste situazioni meritano tutt’altra considerazione rispetto a quella riservata loro dal nostro codice. Occorre adeguarsi al diritto internazionale che ci impone di adeguarci alle normative adottate da tutti gli altri paesi civili, punendo severamente questi comportamenti non solo perche’ eticamente scorretti ed intollerabili ma anche perche’ pericolosi per la tenuta democratica delnostro sistema giudiziario e per la stessa incolumità e vita delle persone coinvolte.
L’Italia non solo e’ considerata inadempiente all’ obbligo giuridico internazionale consistente nella adozione del reato di tortura, masi e’ esplicitamente rifiutata di adottarlo respingendo le formali raccomandazioni ONU a Lei rivolte.
Non sarebbe ora che tutti ci chiedessimo perche’?

(Nella foto Lucia Uva, Ilaria Cucchi e Patrizia Aldrovandi)


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