Dopo le indicazioni da parte del governo di Presidente e Direttore Generale adesso è il turno delle nomine nel cda. Ma la crisi che investe il servizio pubblico non è solo questione di nomi ma di strategie. Editoriali, aziendali, politiche. Ne parliamo con Renato Parascandolo, già direttore di Rai Educational e presidente di Rai Trade. “La televisione pubblica è un tratto distintivo del welfare europeo”.
La Rai è un po’ lo specchio del Paese, fotografa vizi e virtù, le dinamiche e le contraddizioni del potere. E, come il resto del Paese sta vivendo uno dei momenti più difficili degli ultimi decenni.
La crisi che investe la Rai è di lunga durata e ha assunto ormai un carattere strutturale; una crisi che non investe soltanto la qualità della programmazione e l’immagine stessa del servizio pubblico bensì la sua stessa missione, che appare sempre più sbiadita. Vi sono inoltre problemi di natura organizzativa e di articolazione territoriale che troppo sovente sono trascurati o minimizzati malgrado siano all’origine della maggior parte dei problemi di natura editoriale. E’ urgente porre questi problemi all’ordine del giorno del nuovo CdA della televisione di Stato.
Sono in molti, non solo nel centro destra (storicamente più avvezzo alle privatizzazioni selvagge) ad indicare che la strada per uscire dalla crisi è nella privatizzazione.
La Rai ha progressivamente perso la sua centralità nel sistema misto pubblico-privato attribuitole dalla Corte Costituzionale e questo è un danno non solo per l’azienda ma per il settore televisivo nel suo complesso (non dimentichiamo che l’unico capitalismo che ha funzionato in Italia è stato quello in cui le aziende di Stato agivano da volano per il sistema-paese). E’ sorprendente quanto i sostenitori della privatizzazione della Rai non si rendano conto che il loro obiettivo è stato in gran parte già raggiunto.
In che termini?
La dipendenza massiccia dalle agenzie di pubblicità è di per sé una forma di privatizzazione per certi versi anche peggiore della vendita ai privati di rami d’azienda.
Una dipendenza a detrimento della qualità?
Le Tv commerciali apparentemente producono programmi ma, in realtà, il loro business consiste nel produrre telespettatori da vendere alle agenzie di pubblicità. Il programma, pertanto, è solo un’esca per catturarli. In questo mercato, il telespettatore non è, come si vorrebbe far credere, l’utente o il consumatore, bensì la merce; una merce che ogni cinque minuti, grazie all’Auditel, viene contata, impacchettata e venduta al migliore offerente. Né si comprende perché sottraendo reti televisive al servizio pubblico, il pluralismo dovrebbe aumentare: per la Rai, infatti, il pluralismo è un obbligo mentre per un privato è soltanto un’opzione non vincolante.
Rai come “bene comune”?
La televisione pubblica è un tratto distintivo del welfare europeo. La sua legittimazione sta nel temperare la deriva “nichilista” della televisione commerciale senza per questo rinunciare ai grandi ascolti il cui perseguimento dev’essere un’ambizione ma non un’ossessione.
“Serve nuova governance” ha affermato il presidente Monti. “Più poteri a presidente e dg”
Una nuova governance, per quanto indifferibile, non può limitarsi all’assetto istituzionale e legislativo trascurando i problemi d’ordine industriale. In particolare, gli aspetti connessi alla struttura, all’organizzazione e al modello produttivo assumono una capitale importanza sebbene siano stati molto spesso trascurati e, in ogni caso, derubricati a questioni di mera ingegneria aziendale. L’attuale ripartizione in reti e testate, distinte e contrapposte, risale alla riforma del 1975, una riforma fortemente influenzata dalla politica di “unità nazionale” e dall’esigenza di garantire un effettivo pluralismo nella televisione di Stato.
Un modello “politicamente corretto”…
Sì ma già allora penalizzante in quanto favoriva la formazione di tanti piccoli “feudi” autarchici che producevano programmi di ogni genere, ma soltanto per i propri palinsesti. Questa frammentazione, all’epoca del monopolio pubblico, era tollerabile, ma in un sistema concorrenziale dominato dalla Tv commerciale, che senso può avere questa competizione in tono minore tra reti e testate che a stento producono per il loro palinsesto?
In questo contesto cosa ha comportato la rivoluzione digitale?
Con la rivoluzione digitale si è aggravata la diaspora dei generi. Piuttosto che ragionare in termini di convergenza multimediale, la Rai persevera nella logica della lottizzazione. La nascita di un nuovo medium, di un canale o di una piattaforma è il pretesto per creare una Direzione aziendale ad hoc se non addirittura una società. La Rai è attualmente una sorta di arcipelago composto da gracili strutture sganciate dal suo core business (la Tv generalista).
Il risultato è che in Rai, oggi, se si esclude la fiction, tutti fanno tutto.
Dal 1975, tutti i mutamenti avvenuti nell’organizzazione aziendale si sono distinti per estemporaneità e improvvisazione generando una sorta di stratificazione geologica in cui pezzi di azienda si sono venuti sovrapponendo ad altri in maniera del tutto accidentale e incoerente. È, ad esempio, stupefacente, per la sua incongruità, l’organizzazione dell’azienda per mezzi di comunicazione: radio, televisione, Tv satellitare, internet, digitale terrestre, banda larga, libri, dvd, ecc. Non si comprende, infatti, perché un’impresa che produce contenuti, debba essere organizzata per media e non per generi: fiction, informazione, sport, intrattenimento, cultura, education, ecc.
Che ruolo ha e dovrebbe avere in questo nuovo scenario per la televisione l’informazione regionale?
La Rai detiene un patrimonio unico, il solo che lo distingua dalle televisioni commerciali e private: e sono proprio le 20 sedi regionali. Nonostante la riforma del 1975 e la creazione della terza rete, le sedi regionali non sono mai decollate. Col passare degli anni questa risorsa esclusiva del servizio pubblico si è trasformata in un oneroso fardello. Rilanciare le sedi, ammodernandole, ponendole al centro del sistema informativo regionale in una logica di collaborazione e integrazione con le emittenti locali, significa dare voce alla società civile, una voce autorevole e istituzionale evitando le derive campanilistiche da tempo imperanti nelle Tv locali. Se questa visione angusta del decentramento ideativo-produttivo era fino a ieri giustificabile per l’oggettiva carenza di idonei mezzi di comunicazione, non sarebbe perdonabile nel momento in cui la Rai può disporre (dispone) dello straordinario raggio d’azione del digitale terrestre, di Internet e dei canali satellitari.
Le sedi regionali potrebbero essere finanziate con altri proventi rispetto al canone?
Certamente. E l’ottimizzazione delle risorse è un imperativo categorico per la Rai del futuro. Il presidio del territorio è un asset esclusivo del servizio pubblico (i grandi network privati sono strettamente centralizzati) assolutamente in sintonia con il federalismo regionale: un vantaggio enorme per la Rai, rispetto a tutti i suoi concorrenti.
Sul versante opposto è facile constatare come le Regioni e gli Enti locali non abbiano alcuna possibilità di incidere sulle linee editoriali della programmazione delle sedi regionali della Rai. Nelle condizioni attuali, se lo facessero, sarebbero addirittura accusate di indebita ingerenza politica. Né si può sostenere che i Comitati regionali per i servizi radiotelevisivi abbiano mai svolto un ruolo significativo.
Come evitare che il decentramento della Rai sui nuovi media diventi una nuova occasione mancata e che si ricada negli errori del passato?
E’ necessario affrontare il problema in modo organico immaginando una sorta di cogestione delle Sedi da parte della Rai e delle Regioni, compresi gli Enti locali ricorrendo alla costituzione di società miste create ad hoc per “consentire l’esercizio in comune di servizi da parte di più enti con interessi omogenei” (Sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3576 del 28 giugno 2002). Potrebbero, in tal modo nascere canali televisivi regionali sul digitale terrestre e sul satellite interrelati con canali di web-tv e portali interattivi di servizio ai cittadini. Il pieno coinvolgimento delle Regioni nella gestione editoriale dei programmi e dei servizi, sarebbe garantito da Comitati Editoriali paritetici Rai – Regioni che oltre a dare gli indirizzi generali e approvare i piani editoriali nominerebbero i vertici delle varie strutture editoriali.