Trattare la Terra come se fosse l’orto dei ricchi. E’ il land grabbing, l’accaparramento di grandi estensioni di campi nei Paesi poveri a scapito delle comunità locali. E una ventina di imprese italiane – fatto poco noto – si sono tuffate alla grande in questo affare.
Contemporaneamente all’inizio della conferenza di Rio de Janeiro sullo sviluppo sostenibile, ieri l’associazione Re:Common, che si batte per sottrarre le risorse naturali al mercato e alle istituzioni finanziarie, ha pubblicato il rapporto “Gli arraffa terre. Il coinvolgimento italiano nel business del land grab”.
Emergono i nomi di aziende piccole e grandi – da Benetton ad Eni – ed emerge soprattutto il fatto che, in Europa, l’Italia è seconda solamente all’Inghilterra nell’investimento su terre all’estero. E cosa se ne fanno le aziende italiane di tutti quei campi? Essenzialmente (ma non solo) producono biocombustibili detti anche biocarburanti: uno schiaffo alla gente che ha fame.
A Re:Common risulta che le imprese italiane abbiano messo gli occhi su “parecchie centinaia di migliaia” di ettari, e che continuino “in maniera esponenziale a espandere il loro ‘pacchetto’”: sembrano destinate a spartirsi in poco tempo “una fetta di terreni che si calcola potrebbe superare i due milioni di ettari”. Però, avverte il rapporto, non esistono numeri definitivi, “data la quasi totale mancanza di trasparenza e l’aura di diffusa segretezza che continua a circondare il fenomeno”.
In sostanza, le imprese italiane acquisiscono a poco prezzo e per lunghi periodi grandi estensioni di terra soprattutto in Africa (in particolare Mozambico, Etiopia, Senegal) ma non solo: “I fratelli Benetton, controllando la Compania de Tierras, sono i più grandi proprietari privati di terreni in Argentina, dopo lo Stato”. Di conseguenza “la Benetton si trova da anni nel mirino di numerose organizzazioni umanitarie per le conseguenze provocate dalla sua attività sulla popolazione indigena Mapuche, che si è vista così espropriare la propria terra”.
Le tenute agricole all’estero possono avere davvero prezzi super stracciati.In Senega, la Senhuile SA, un’impresa per il 51% italiana (Gruppo Finanziario Tampieri) e per il 49% senegalese, si è accaparrata 20mila ettari di terreno nella vallata del fiume Senegal (regione settentrionale di Podro) per 100mila dollari l’anno, cioè solo 3,5 euro all’anno per ettaro.
Poi il progetto è stato sospeso in seguito a duri scontri di piazza con morti e feriti. L’opposizione delle comunità locali è ovvia: l’accaparramento da parte degli stranieri impedisce l’accesso ai campi dai quali la gente ottiene il cibo per sfamarsi.
Irrompono sulla scena colture alimentari destinate non ai circuiti locali, ma ai mercati internazionali. Soprattutto, arrivano coltivazioni (jatropa, palma da olio…) per la produzione di biocarburanti.
Diminuisce così l’estensione di terra destinata alla produzione del cibo. Le pentole e i piatti dei Paesi poveri sono costrette ad entrare in concorrenza con i serbatoi delle auto e con le centrali a biocombustibili che producono energia nei Paesi ricchi.
E poi c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di chiamare “verde” questo tipo di energia.
Su Re:Common gli arraffa terre, la pagina del comunicato stampa dalla quale è possibile scaricare l’intero rapporto in .pdf