di Roberto Bertoni
La tragedia che ha sconvolto l’Emilia ci dice alcune cose sul nostro Paese che finora abbiamo colpevolmente ignorato. Ci dice, innanzitutto, che abbiamo delle mappe sismiche inadeguate che devono essere aggiornate alla svelta, ma non mi pare il caso di sollevare ulteriori polemiche in merito perché, in fondo, è anche vero che da quelle parti un terremoto di queste proporzioni non si verificava dai tempi della casata estense. Ci dice, inoltre, che anche questa terra laboriosa e da sempre pronta al sacrificio, oggi è costretta a chiedere aiuto perché con le sue sole forze, specie dopo la seconda, maledetta scossa di martedì scorso, non ce la può fare. Ci dice, infine, che chiunque sarà chiamato nel 2013 ad assumere il gravoso compito di riordinare i tasselli di un mosaico ormai in frantumi, sarà comunque un vincitore sulle macerie. E, per giunta, dovrà governare senza un centesimo e far fronte a disastri che hanno arrecato danni di svariati miliardi di euro, più quelli derivanti dalla distruzione delle fabbriche, dalla mancata produzione di oggetti per i quali siamo rinomati nel mondo, dai distretti economici in ginocchio e dai posti di lavoro che, inevitabilmente, si perderanno, in una Nazione già allo stremo e con un tasso di disoccupazione al galoppo.
Qualcuno, di sicuro, starà storcendo il naso di fronte a quest’elenco di conseguenze pratiche che, apparentemente, sembrano non tener conto dell’aspetto più intollerabile del sisma: la strage di operai, morti nel crollo delle fabbriche nelle quali lavoravano, in molti casi mentre stavano effettuando dei sopralluoghi per tentare di riavviare i macchinari rimasti integri e per tracciare un primo bilancio delle perdite causate dalla prima ondata sismica di domenica 20 maggio.
Non è così, ma non avrebbe senso affrontare un tema tanto delicato (soprattutto in questi giorni, mentre le Camere sono impegnate nell’approvazione della riforma del mercato del lavoro) senza analizzare le ricadute economiche di una disgrazia che ha completato la malefica opera avviata lo scorso autunno dalle alluvioni che flagellarono la Lunigiana e il Levante ligure.
All’epoca, aderimmo ad un appello promosso da Carlin Petrini al fine di sensibilizzare il centrosinistra sull’argomento, tutt’altro che secondario, del consumo di suolo. Scrisse, infatti, Petrini: “Non c’è bisogno di nuove case, non c’è bisogno di nuovi capannoni: è ora di capire che chi li fa li fa soltanto per il proprio tornaconto privato, e intanto distrugge un bene comune. Rispettiamo la proprietà privata, ma il bene comune deve avere la precedenza. Il paesaggio, forse a prima vista meno tangibile dell’acqua, è un bene comune perché tutelandolo si preservano l’ambiente, la sicurezza delle persone, le attività agricole, i suoli, la bellezza. Il privato, fatti salvi i suoi diritti, non può privare il resto della comunità di qualcosa d’insostituibile e di non rinnovabile. Il privato non può privare”.
In Emilia, per fortuna, lo scenario è diverso: nessuno ha interrato fiumi o cementificato a dismisura, fino a devastare il paesaggio, ad imbruttirlo, a trasformare coste e litorali in distese di case, di ville e d’asfalto. In Emilia sono andati giù capannoni laboriosi: il vanto e l’orgoglio del nostro Paese, ciò che ci consente di rimanere, nonostante tutto, tra i grandi della Terra, un complesso di generosità, condivisione, solidarietà e sviluppo incentrato sull’uomo, e dal quale sarebbe opportuno che anche altre realtà prendessero esempio.
Tuttavia, il concetto è lo stesso ed è altrettanto valido: bisogna rispettare il suolo e la natura, in ogni caso, a prescindere, anche dove essa ci sembra amica, anche dove non si è mai ribellata, anche dove l’abbiamo sempre rispettata e trattata come merita; non bisogna averne timore ma neppure abusare della sua pazienza che, come abbiamo visto, ultimamente ha dei margini di sopportazione alquanto esigui.
Sul piano umano, ci associamo alle parole del ministro Fornero: “Il lavoro è stato il vero epicentro del sisma”. Già, perché al di là di tutti i calcoli e le statistiche, che pure non ci siamo potuti esimere dal fare, brucia parecchio l’idea che ad avere la peggio siano sempre gli ultimi, i più deboli, in alcuni casi addirittura stranieri o emigrati dal Sud, come se fossimo ancora nell’immediato dopoguerra, quando milioni di meridionali si riversarono in massa al Nord animati dalla speranza di potersi rifare una vita e di poter regalare un futuro migliore ai propri figli.
Molti commentatori hanno fatto notare che sono morti anche degli imprenditori ed è bene sottolineare quest’aspetto, non perché la morte dei “padroni” compensi quella degli operai ma perché in quest’epoca dominata dall’egoismo e dall’individualismo è giusto evidenziare la particolarità dell’Emilia: una terra dove da sempre l’operaio ama la propria fabbrica al pari dell’industriale e dove, come detto, il modello di sviluppo non è mai stato quello fondato sul “divide et impera” che, invece, ha preso piede altrove.
Sono morti insieme, uniti dallo stesso tragico destino, dalla stessa volontà, tipica di quelle zone, di riprendere subito il cammino, di risollevarsi, di rimboccarsi le maniche senza attendere soccorsi o manne dal cielo.
Adesso li piangiamo, al pari del nostro patrimonio culturale e artistico che continua a sgretolarsi: un po’ per i terremoti, un po’ per l’incuria, un po’ perché la filosofia secondo la quale “con la cultura non si mangia” non è ancora del tutto alle spalle.
Con una punta di malevolo cinismo, verrebbe da dire: “Per fortuna siamo in Emilia!”, ma non è il caso, anche perché conosciamo bene i danni prodotti da vent’anni di leghismo e mai vorremmo fornire implicitamente un alibi a chi pensasse di abbandonare gli emiliani al proprio destino con la perversa scusa che “tanto quella è una regione nella quale funziona tutto”. Di sicuro, gli emiliani sono una garanzia dal punto di vista dell’abnegazione e della dedizione al lavoro, dell’impegno civile, del tendersi la mano a vicenda e dello stringersi in una comunità ricca di valori quando la catastrofe è collettiva e nessuno può considerarsi al riparo; ma stavolta non basta.
Ci sarà tempo per l’accertamento di eventuali responsabilità e per capire se davvero qualcuno sia tornato in fabbrica per paura di perdere il posto (è assai probabile, dato che la crisi morde dappertutto e il rischio che le aziende delocalizzino incombe come una spada di Damocle pure da queste parti di antica tradizione solidale).
Ci sarà tempo per elaborare il lutto e per formulare le stime, per le proposte su come alleviare le sofferenze di popolazioni sconvolte e per il ritorno alla normalità.
Sarà dura, durissima ma ha ragione il presidente Napolitano: l’Italia ha la possibilità di farcela, di risollevare la testa, di tornare a crescere e a svilupparsi.
Ce la possiamo fare, dunque, ma solo a patto di crederci davvero, di abbandonare modelli imprenditoriali sbagliati (ad esempio quelli fondati sui contratti separati e sulle fughe delle aziende all’estero) e di comprendere che, ora più che mai, di fronte ad un territorio fragile e indifeso, siamo noi cittadini le uniche, vere risorse, le colonne portanti di questa meravigliosa e sventurata Nazione.