Sono passati tre anni. Era il 12 giugno 2009. Nessuno avrebbe previsto le cosiddette “primavere” che hanno poi attraversato il Vicino Oriente e il Nord Africa nel 2011, e pochi avrebbero considerato destinati a un rapido tramonto i regimi di Mubarak, Gheddafi, Ben Alì. In Iran sembrò invece che qualcosa stesse per cambiare. Ironia della sorte: mentre i dittatori or ora citati fanno ormai parte del passato, in Iran il regime islamico guidato dal leader supremo Khamenei è ancora in sella, e il presidente Ahmadinejad si avvia a concludere il suo secondo e ultimo mandato.
Tre anni fa gli iraniani si recarono in massa alle urne per le elezioni presidenziali, al termine di una campagna elettorale partecipata e vivace come poche altre. Votarono in 39 milioni, l’85% degli aventi diritto. La convinzione diffusa che le istanze riformiste del candidato di opposizione Mir Hossein Mousavi avrebbero prevalso su quelle conservatrici del presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad aveva creato tra gli iraniani fermento, entusiasmo, attesa febbrile. E fu enorme la delusione quando, invece, i risultati ufficiali assegnarono la vittoria ad Ahmadinejad. Sull’esito di quelle elezioni, che in mancanza di prove certe le organizzazioni internazionali non possono definire “truccate” – trovando comodo rifugio nel più neutro e diplomatico aggettivo “contestate” – i brogli pesarono in una misura che non è dato conoscere con esattezza. Certo è che quando milioni di iraniani, avvolti in drappi verdi (il colore scelto per la campagna di Mousavi) scesero per strada sventolando striscioni e cartelli sui cui era scritto “Where is my vote?”, l’impressione che una colossale truffa elettorale si fosse consumata prese corpo. I manifestanti iraniani hanno fatto scuola: con l’uso spregiudicato dei social network e di Youtube per organizzare le proteste, far circolare immagini e notizie di quello che accadeva per le strade del paese con le forze militari e paramilitari del regime impegnate a reprimere con la violenza il dissenso, hanno mostrato ai popoli protagonisti delle “primavere” di due anni dopo quale aiuto possa dare Internet ai movimenti di massa. Sennonché della lezione altri, e altrove, hanno raccolto i frutti.
In Iran, a tre anni di distanza da quei giorni di speranza e di lotta non violenta, la situazione dei diritti umani non ha fatto passi avanti. E se all’interno del regime una lotta feroce e senza esclusione di colpi è in corso tra il fronte di Khamenei e quello di Ahmadimejad (con la guida suprema che ha preso il sopravvento e il presidente che, dopo le elezioni parlamentari dello scorso marzo, vede ridotto al lumicino il numero dei sostenitori su cui può contare in Parlamento) il diviso fronte conservatore è pronto a ricompattarsi ogni volta che si tratta di reprimere le aspirazioni democratiche e la richiesta di diritti e libertà da parte degli iraniani.
Molti dei prigionieri di coscienza che furono arrestati nelle settimane e nei mesi successivi al voto, in seguito alle proteste contro i brogli, sono ancora in carcere e scontano pene comminate al temine di processi iniqui nel corso dei quali i diritti della difesa sono stati negati. In prigione il ricorso alla tortura, alle pressioni psicologiche, all’isolamento per ottenere false confessioni autoaccusatorie è ampiamente documentato. Ci sono poi prigionieri di coscienza le cui condizioni di salute destano viva preoccupazione, e che si sono visti ripetutamente negare la possibilità di ricevere cure mediche appropriate: Narges Mohammadi, vice presidente del Centro dei Difensori dei diritti umani a Teheran, madre di due gemelli e sofferente di paralisi temporanee; il blogger Hossein Ronaghi Maleki, che ha dovuto restare per settimane in sciopero della fame per ottenere di essere sottoposto alla necessaria operazione ai reni; il giornalista e attivista per i diritti umani curdo Mohammad Sedigh Kaboudvand, che sta digiunando perché gli sia consentito di recarsi al capezzale del figlio malato. In troppi casi (due solo negli ultimi trenta giorni) la negligenza delle autorità carcerarie ha già causato la morte di prigionieri di coscienza ai quali è stato impedito di curarsi.
La pressione delle autorità su studenti attivisti, giornalisti, blogger, difensori dei diritti umani, esponenti di minoranze etniche, politiche e religiose non si allenta. La libertà di stampa è sotto continuo attacco (l’Iran è al 175° posto su 179 paesi nell’annuale classifica sulla libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere), il controllo sul web sempre più asfissiante. Il regime ha perfettamente compreso l’importanza politica dei social network, e punta a realizzare una rete nazionale che chiuda l’Iran al traffico Internet con il mondo esterno. Nel frattempo i due candidati di opposizione alle presidenziali del 2009, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karoubi, e Zahra Rahnavard, moglie del primo, da quasi un anno e mezzo si trovano agli arresti domiciliari.
Un anno fa una risoluzione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha istituito il mandato del Relatore speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani in Iran e nominato all’incarico il dott. Ahmed Shaheed. Le autorità iraniane continuano a negargli l’ingresso nel paese, dove invece la sua presenza e la sua attività di controllo e testimonianza diretta sarebbero importanti.
Questi giorni di giugno, il mese Khordad del calendario persiano, ripropongono, oltre a quello delle elezioni, anche gli altri anniversari di tutti gli eventi drammatici seguiti al voto e alle proteste che ne sono scaturite. Si ricordano con commozione le vittime che la violenta repressione governativa ha causato tre anni fa. Giovani come Neda Agha Soltan e Sohrab Aarabi; gli almeno 4 studenti uccisi da forze paramilitari in borghese nel corso di un assalto notturno ai dormitori dell’università di Teheran, la notte del 14 giugno 2009; i tre ventenni morti in seguito alle torture subite nel carcere segreto di Kahrizak – Amir Javadifar, Mohammad Kamrani, Mohsen Ruholamini. Tutte vittime che, per ora, non hanno avuto giustizia.
Al tempo stesso, nel corso di questi tre anni, si è registrato un’allarmante incremento nell’uso della pena di morte da parte dell’Iran. Come documentato dai rapporti annuali di Iran Human Rights, le autorità iraniane hanno messo a morte oltre 1500 prigionieri dalle elezioni del 2009 ad oggi (78 solo nell’ultimo mese di maggio 2012), ed è sempre più diffusa la prassi delle impiccagioni in pubblico, con un chiaro uso politico della pena capitale, adoperata con scopo intimidatorio, per rafforzare attraverso il terrore il controllo sulla società da parte del governo: “Terrorismo di stato,” come l’ha definito Mahmood Amiry-Mogghadam, portavoce internazionale di IHR.
E mentre proseguono, per ora con risultati incerti, le trattative tra il gruppo dei paesi del 5+1 e la Repubblica islamica sul programma nucleare iraniano, IHR Italia esorta la comunità internazionale a non distogliere l’attenzione dalle violazioni dei diritti che hanno luogo ogni giorno in Iran: un tema – quest’ultimo – che non deve essere escluso dai tavoli della diplomazia.
Le autorità iraniane devono essere poste di fronte alle loro responsabilità e chiamate a risponderne. L’impunità che circonda chi viola i diritti umani in Iran, tanto più se rapportata alle persecuzioni che colpiscono chi li difende, è uno scandalo che non può lasciare indifferenti.
* presidente di Iran Human Rights Italia Onlus