Come previsto, il summit sulla terra dell’Onu di Rio de Janeiro (“Rio+20”) si è concluso con un totale fallimento. Rappresentanti di più di 170 stati, organizzazioni non governative e lobbisti di ogni genere si sono mescolati in una bolgia senza coerenza e senza costrutto. Il tentativo era quello di cercare di dare concretezza al mitico “sviluppo sostenibile” attraverso la “green economy”, cioè: tecnologie e strumenti di mercato per creare fondi di investimento per produzioni a minore impatto ambientale. Ma i potenti della terra, i “poteri forti” sono “distratti” da una crisi economica fuori controllo e che non lascia margini alla spesa pubblica.
L’idea di un “Green New Deal” anticiclico è sicuramente affascinate. Un keynesismo ambientalista farebbe felici i progressisti di tutto il mondo. Una elegante “via di uscita dalla recessione”, come auspica Mario Pianta (su il manifesto del 19 giugno in vista del Forum dell’altra Europa indetto per fine giugno a Bruxelles). Persino; “La carta vincente per far uscire l’economia dalla peggiore recessione della storia recente”, come scrive Ermete Realacci (su Album, “La sfida verde” inserto sui quotidiani del gruppo l’Espresso). Conciliare ripresa, occupazione, ambiente e business è un po’ come “salvare il mondo e fare i soldi”. Ma, fino ad oggi almeno, non ha funzionato. Per una semplice ragione: la spesa a deficit si consegna inevitabilmente alle forze del mercato finanziario che pretendono ritorni (tramite i tassi di interesse) alti, rapidi e sicuri. Gli interventi che sarebbero necessari per la salvaguardia dei patrimoni naturali non offrono queste grandi opportunità. Non hanno funzionato nemmeno i tentativi di mettere a profitto l’atmosfera, le foreste, gli oceani, l’acqua… attraverso la creazione di speciali mercati artificiali dei permessi di inquinamento, dei diritti di pesca, delle concessioni allo sfruttamento degli stock (risorse minerarie) e dei flussi (ecosystem services) naturali.
Dopo vent’anni di tentativi, non mi sembra che sia in atto una transizione verso la de-carbonizzazione energetica, né che i prelievi di materie prime siano in diminuzione. Un rapporto del WWF presentato a Rio stima che negli ultimi vent’anni le estrazioni sono aumentate: da 42 miliardi di tonnellate a 60, più quelle non dichiarate. Al contrario l’ “economia degli ecosistemi e della biodiversità” valutata in 33 trilioni di dollari all’anno, fa gola a molti voraci predatori. La competizione economica tra aree geografiche e imprese è più che mai centrata sull’accaparramento delle risorse naturali, a partire dalle terre fertili (landgrab, in Africa e non solo) per finire alle “terre rare” (i 19 minerali fondamentali per lo sviluppo delle nanotecnologie) e a minerali come il litio, fondamentale per l’elettrificazione delle automobili.
Sapevamo già che non sarà il mercato a salvare il pianeta Terra. Che “l’economia verde di mercato” è un ossimoro. Dispiace solo vedere che in suo nome si fa marketing, si getta del fumo negli occhi dell’opinione pubblica sottoscrivendo dichiarazioni “trasversali”. L’ultima trovata è lo United Nations Global Compact sottoscritto da settemila aziende del mondo. Spiega bene lo spirito del patto il presidente dell’Eni, Giuseppe Recchi: “La sostenibilità è un modo virtuoso di fare business. Un prodotto classificato come ‘verde’ porta con sé un valore aggiunto che si traduce in un prezzo e in una capacità di vendita maggiori” (Il Sole 24 ore del 26 giugno “La svolta ‘sostenibile’ dell’Eni”). L’unica cosa che lascia ben sperare è che le parole “vere” e “sostenibile” sono state scritte, con un po’ di vergogna, tra virgolette.
Chi non si è lasciato ingannare a Rio sono stati i movimenti contadini, indigeni, per l’acqua, la sovranità alimentare e territoriale che si sono riuniti nell’Assemblea dei Popoli (Cúpula dos Povos) e che hanno dato vita ad un contro vertice per affermare “la necessità di un rapporto equo ed equilibrato conla Madre Terrache rispetti le leggi della natura, mantenga l’integrità del ciclo dell’acqua e garantisca il raggiungimento della giustizia sociale e ambientale per tutti gli abitanti della Terra”. Secondo loro la “green economy” è l’espressione del modello capitalistico di sviluppo che presta poca attenzione alle interconnessioni e crea profonde disuguaglianze economiche, sociali e ambientali e, soprattutto, consolida i processi di appropriazione da parte delle big corporation.
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