L’anziano Giulio Andreotti diceva che a “pensare male si fa peccato, ma….”. Il rinvio al 5 luglio del processo Diaz ha aperto il fronte a più di una interpretazione. E dietrologia. Il processo in Cassazione per il caso Diaz-G8 rappresenta e rappresenterà per la storia italiana (politica, giudiziaria e anche giornalistica) un momento fondamentale. Perché quanto la sentenza stabilirà avrà effetti comunque particolari. Da quello, nel caso della conferma delle condanne di vertici di altissimo livello delle forze dell’ordine con un giudicato che conferma il livello delle loro responsabilità apicali, a quello in caso di rifacimento del giudizio, riforma della sentenza o altro, di allargare ancora di più una ferita sul fronte dei diritti e, soprattutto, della fiducia nelle istituzioni. Nel caso specifico, di chi indossa una divisa.Il rinvio è stato una beffa? Non lo so, probabilmente è tutto meno contorto di quanto appare. Il collegio e la sua rinnovata presidenza alla quasi vigilia del giudizio, hanno necessità di tempo per valutare una sentenza i cui effetti possono essere “devastanti”, imponendo in caso di condanna, il cambiamento di alcuni vertici come lo Sco o altro.
Non sono certo peregrine alcune osservazioni “politiche” e giornalistiche, rispetto a chi sostiene la necessità di una sorta di ragion di stato (la storia professionale degli imputati di oggi) nella valutazione del caso. Ovvero, confermare le condanne significherebbe obbligare al cambio dei vertici, sostituendo chi nella lotta alla criminalità ha ottenuto successi di valore.
Nessuno credo neghi queste storie professionali, ma quando accaduto a Genova alla Diaz (e a Bolzaneto, oltre che nelle piazze dove il punto sulla violenza di parte dei manifestanti e di molti in divisa, a oggi, dodici anni dopo, non è stato chiarito) non credo possa sottostare ad alcuna ragion di stato.
Certamente, se la Cassazione confermerà le condanne (interessante, molto lucida e coraggiosa la requisitoria del Pg), l’esito sarà questo. Professori o politici, tecnici o no, chi regge le sorti del governo non potrà sottrarsi al rispetto del dettato di una sentenza. Personalmente non credo a un rinvio strategico o nel senso della ricerca di chissà quale inciucio. Piuttosto, credo, si tratti di necessità di tempo per valutare. E, forse, anche concedere i tempi giusti per eventuali scelte conseguenti alla sentenza stessa. Segno che, al di là delle affermazioni di principio, non tutti forse in sede governativa e al Viminale, sono così sicuri che l’ultimo giudizio salverà capra e cavoli? Vedremo.
Uno stato di diritto è tale (e soprattutto forte in senso non autoritario, ma di autorevolezza come ha detto Rosy Bindi a Genova alla manifestazione contro il terrorismo per la gambizzazione dell’Ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi) nella misura in cui rispetta e attua l’essere uno stato di diritto, impedendo che l’autorevolezza diventi espressione fine a se stessa, becera, sanzionabile, meramente autoritaria.
L’attesa come si usa dire, è molta. La sentenza cadrà nell’anniversario del G8 del 2001. Non credo (esprimo una valutazione personale) che arriveranno delle scuse come chiesto ancora lo scorso anno nel decennale del G8 di Genova. Non lo farà nessuno e vorrei tanto essere smentito. Chiedere scusa avrebbe un valore, con tutto il rispetto per l’aspetto giudiziario e tecnico del processo, enormemente superiore a una condanna definitiva per le violenze di quella notte, sanzionate da una delle massime espressioni della separazione dei poteri, la magistratura.
Vorrebbe dire, non cancellare l’accaduto, ma abbiamo sbagliato. Non “scusate, abbiamo sbagliato” sul tono della vecchia battuta del vecchio allenatore della Sampdoria, Vujadin Boskov, che di fronte a un gol topico del Milan, chiese alla panchina “chi ha sbagliato, Pagliuca? (il portiere doriano)”. Ma un “chiediamo scusa, la nostra maggiore responsabilità è quella di avere tradito la fiducia tra cittadini e istituzioni”. Detto guardando dritto negli occhi. Ma, temo, non accadrà.
Nei vari gradi di giudizio, di tutti i processi del G8, si sono succeduti giudici di diversa cultura professionale e politica in seno alla magistratura. Sono stati condannati dei violenti di piazza (ripeto: un buco nero non interamente risolto, peraltro, in tutti questi anni), sono stati condannati i responsabili identificati di quella “istituzionale”. Nel silenzio delle istituzioni stesse, dei suoi appartenenti, tutti tesi a una difesa corporativa a prescindere dai livelli di responsabilità, dal semplice agente, carabiniere, finanziere per salire ai massimi livelli. E quel silenzio impedisce, impedirà, qualunque sia l’esito processuale, il chiedere scusa.