Far partecipare i detenuti ai lavori di ricostruzione delle zone terremotate. Una proposta, quella del Ministro della giustizia Severino, che colpisce per la sua semplicità e nello stesso tempo per la sua rivoluzionarietà. Dopo anni di cultura forcaiola, i detenuti vengono visti per quello che sono…
non reati che camminano – come diceva il titolo di un convegno sul tema – ma come persone. Anzi – e qui sta la rivoluzionarietà della proposta-, come una risorsa per il Paese.
La proposta fa notizia e di fronte all’emergenza cadono le barriere ideologiche e strumentali per fare posto alle risposte concrete, necessarie e urgenti.
D’altra parte, esperienze di questo tipo non sono nuove. Basta pensare al terremoto del 2009, quando quattro detenuti del carcere di Rebibbia, nei giorni immediatamente successivi al sisma, andarono a lavorare come volontari nella cucina del Campo base dell’Aquila. Una settimana di lavoro intenso insieme alla Croce Rossa per dare il loro contributo a cui ne è seguita un’altra. Poi la scelta di farli andare a lavorare in maniera fissa. Per oltre un anno si sono alzati alla quattro di mattina per uscire dal carcere, andare all’Aquila, cucinare colazione pranzo e cena per centinaia di persone e rientrare la sera in cella. Un’occasione di riscatto vera, di confronto con la sofferenza innocente delle persone colpite dal sisma, la scoperta di valere ancora qualcosa, di avere molto da dare, di essere persone che hanno sbagliato sì, ma non per questo essere diventate meno persone degli altri.
È quello che l’Ordinamento penitenziario chiama processo di risocializzazione e che nelle carceri sovraffollate di detenuti e sguarnite di personale non si riesce a portare avanti.
Allora ben venga la proposta del ministro per dare un aiuto concreto ai terremotati e per dare un senso alla pena “tesa alla rieducazione del condannato” come dice la nostra Costituzione.