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Editoria: Vita, “finalmente un testo bonifica il sistema. Ma siamo ad un passaggio, non al compimento, di una riforma”

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“Signor Sottosegretario, il testo al nostro esame, unitamente al disegno di legge delega ora all’esame della Camera dei deputati, rappresenta l’architettura generale: vi è tuttavia la necessità che il fondo dell’editoria abbia un’ulteriore soglia di crescita. Grazie anche a lei e al Governo è oggi di 120 milioni di euro, contro i 47 ereditati dal Governo precedente. Ne servono, però, ancora: la soglia di sopravvivenza è attorno ai 155-160 milioni di euro”. Questo uno dei passaggi principali dell’intervento in aula del senatore Pd Vincenzo Vita e della dichiarazione di voto in merito al decreto editoria.

VITA (PD). Signora Presidente, signor Sottosegretario, ringrazio la relatrice e il relatore. Aggiungerò qualche considerazione, spero utile a richiamare l’attenzione delle colleghe e dei colleghi su un provvedimento di grande rilevanza. È vero che si tratta di un decreto-legge che apre la strada ad una riforma più complessiva (la delega al Governo a provvedere ad una più compiuta riforma del settore è depositata alla Camera) tuttavia, in questo testo, con qualche limite cui farò cenno tra breve, si mette la parola fine (e vorrei sottolinearlo, perché ho ricevuto tante domande da colleghe e colleghi interessati a capire quanto c’è ancora di attuale nell’elenco di giornali che prendono le provvidenze), almeno in parte, ad un criterio antico, troppo incrostato, che peraltro ha una origine – è bene ricordarlo – proprio in quest’Aula. Ricordo da spettatore, allora, sulle tribune quando, il 6 agosto 1990, si approvò, a maggioranza e con le dimissioni di cinque Ministri dell’allora Governo Andreotti, la legge Mammì sull’emittenza. E proprio all’indomani, il 7 agosto, prese inizio – come in un compromesso – il percorso normativo, di cui ancora oggi paghiamo le spese, nell’immagine e nei riflessi operativi del settore: la legge n. 250 del 7 agosto 1990, poi novellata in una sequenza normativa degna di una serie televisiva, tante e complesse sono le articolazioni successive. Tuttavia, quella prima fase diede avvio ad una situazione che oggi, con questo testo, si vuole capovolgere (se ho capito bene, Signor Sottosegretario) in una chiave diversa, più selettiva, più rigorosa, più ancorata a dei valori morali.

È bene anche chiarire – ricordo polemiche in merito – che non è solo l’Italia ad avere un sistema di provvidenze. Se si guarda ad un rapporto molto interessante «Public support for the media: a six-country overview of direct and indirect subsidies», uno studio molto recente elaborato dal Reuters Institute for the Study of Journalism dell’Università di Oxford, si noterà che (l’ho letto con stupore) che in pressoché tutti i Paesi europei esistono forme dirette o indirette di sussidio all’editoria (dalla Francia alla Germania al Regno Unito alla Finlandia, all’Austria, ma anche negli Stati Uniti), con un Paese, la Francia, che tra l’altro ha tenuto recentemente degli stati generali sull’editoria, cui rimanderei perché sono pieni di implicazioni di grande interesse anche per noi.

Ebbene, fatto questo chiarimento, considerato quindi che non si tratta di un’anomalia solo italiana ma di un problema di transizione alla nuova stagione digitale, da governare con sapienza, occorre intendersi su quali sono i punti di novità.
Mi sembra di capire, signor Sottosegretario, signora relatrice e signor relatore, che i punti essenziali sono due. Anzitutto, l’ancoraggio del finanziamento all’occupazione effettiva delle testate e, diciamo meglio, contratti a tempo indeterminato, non contrattini o co.co.co. Lo dico perché in uno studio recente sull’occupazione giornalistica ho letto (anche in questo caso con stupore) che in molti giornali italiani c’è una tendenza inquietante a pagare chi scrive dei pezzi, non assunto a tempo indeterminato, 4 euro ad articolo, quando va bene, cioè circa 0,04 centesimi a riga. Questo a proposito dei fenomeni della precarizzazione, della sottoccupazione, del lavoro nero, del lavoro sfruttato, spesso con ragazze e ragazzi che svolgono servizi senza essere iscritti all’Ordine, anche nelle zone più a rischio (pensiamo a quello che è successo a Giancarlo Siani tanti anni fa). Ebbene, questo stato di cose oggi dovrebbe essere sovvertito da un criterio di erogazione che punti rigorosamente all’occupazione certificata a tempo indeterminato di giornalisti e poligrafici.

L’altro criterio fondativo del testo è quello di legare rigorosamente il finanziamento alle copie veramente vendute. Non sto ad evocare casi recenti, sembrerebbe persino un po’ maramaldesco farlo qui da parte mia, di testate sopravvissute con lauti finanziamenti non vendendo quasi nessuna copia in edicola (come sapete ci sono anche inchieste in corso della magistratura, ricordo il caso Lavitola per tutti).
C’è poi un articolo di grande interesse nel testo. Mi riferisco all’articolo 3 sull’editoria digitale, che a noi pare entrare nel vivo del grande passaggio di epoca descritto dalla mediologia più evoluta, e cioè quello dall’analogico al digitale. Il «New York Times» ha fatto uno studio di estremo interesse sui giornali online, preconizzando che, se nell’arco di pochi anni il trasferimento alla diffusione online sarà pressoché concluso, tuttavia esso non porterà alla cannibalizzazione dei giornali analogici, quelli cartacei, bensì questi saranno costretti a diventare un po’ diversi, e cioè a puntare sull’approfondimento, sul commento, come dicono i mediologi, sul lean back della fruizione, a differenza del lean forward dei media digitali, che si trasforma spesso in una modalità che De Kerckhove definisce “screttura”, cioè un insieme di lettura e scrittura. I giovani nativi digitali sono sempre più dei wreaders, cioè scrivono e leggono nello stesso tempo.

Questa che potremmo chiamare la quarta rivoluzione dell’editoria, dopo il passaggio dal volumen al codex, dal rotolo al libro, dopo la rivoluzione di Gutenberg, l’avvento del digitale, ci impone di fare un transizione governata: e il senso di questo testo mi sembra vada in questa direzione. L’articolo 3 in particolare cerca di attrezzare il sistema della comunicazione stampata a entrare nell’era digitale, però vivo e non morto. Questo sembra, almeno a noi, l’argomento principale.

Il testo ha dei limiti che mi auguro con gli emendamenti possano essere colmati. Faccio dei flash, poi tra breve entreremo nel vivo dell’argomento. Proprio l’occupazione come criterio richiede che il tetto del finanziamento si alzi un po’, altrimenti diventa contraddittorio: due milioni di euro per la parte occupazione sono un limite un po’ troppo basso. Si deve premiare o no l’occupazione? Come anche tra le copie vendute è ragionevole, nella stagionedell’online, considerare gli abbonamenti online regolarmente pagati. Potrei citare altri esempi, come la possibilità per le cooperative di giornalisti di acquisire le testate senza perdere il diritto al finanziamento. Insomma, è un dibattito molto importante quello che ci accingiamo a svolgere e che anche sulle parti fin qui un po’ neglette dal dibattito – mi riferisco all’editoria no profit – richiede un’attenzione a quanto sta avvenendo.

Concludo introducendo questo spunto di riflessione. Signor Sottosegretario, il testo al nostro esame, unitamente al disegno di legge delega ora all’esame della Camera dei deputati, rappresenta l’architettura generale: vi è tuttavia la necessità che il fondo dell’editoria abbia un’ulteriore soglia di crescita. Grazie anche a lei e al Governo è oggi di 120 milioni di euro, contro i 47 ereditati dal Governo precedente. Ne servono, però, ancora: la soglia di sopravvivenza è attorno ai 155-160 milioni di euro. È così, signor Sottosegretario, signori relatori, colleghe e colleghi: il sottotesto di questo provvedimento è un universo fatto da tantissime testate, 4.000 persone che vi lavorano, un grande indotto di stamperie ed agenzie. Insomma, stiamo parlando di un pezzo reale dell’intelligenza collettiva, di quel software di cui parlò già Calvino nelle «Lezioni americane» come il punto cruciale della modernità.
Credo che possiamo perfezionare il testo del decreto con un dibattito approfondito sapendo che, se si approva questo provvedimento con dei miglioramenti, potrà diventare un riferimento anche per una riforma ancora più coraggiosa.

Dichiarazione di voto
VITA (PD). Signor Presidente, il nostro Gruppo voterà a favore di questo testo, anche corroborato da alcune modifiche migliorative che questa mattina sono state approvate e che prevedono alcune specifiche in più sul tema delicato dei tetti di spesa, con qualche importante chiarimento – forse l’argomento è stato un po’ sottaciuto nella discussione, ma ci tengo a sottolinearlo qui – sulla vicenda dei web e delle regole che devono presiedere alla loro naturale quotidianità. Si eliminano, cioè, i riferimenti ai blog di dimensione fair use, quelli sotto i 100.000 annui di fatturato, dalle normative relative alla registrazione presso i tribunali, al ROC (registro degli operatori di comunicazione) e alle rettifiche. È importante per la rete e nella rete. È un tema sentitissimo, perché la rete non può avere le stesse fisiognomiche della vecchia cultura analogica.

Signor Sottosegretario, pur ringraziandola molto per lo sforzo compiuto (così come ringrazio la signora relatrice e il signor relatore), mi rammarico del fatto che non sia stato approvato l’emendamento sull’emittenza radiofonica e televisiva locale, ancorché sia stato accolto un ordine del giorno.
Desidero ricordare il rilievo di tali punti.
Vi è un vasto arcipelago di comunicazione slegata dai grandi trust nazionali che oggi potrebbe morire per la mancanza di un’attenzione e di una politica pubblica. Il tema della radio – lo voglio di nuovo accennare – è un po’ negletto nel dibattito politico: peccato! La radio è un piccolo, grande medium; è uno strumento essenziale di comunicazione. Mi auguro che il Governo ne possa tenere conto in un prossimo provvedimento.
Tra l’altro, la radio ci ha consegnato alcune pagine del più grande dei giornalismi. Ora che non è presente in Aula lo posso ricordare meglio (prima ero un po’ titubante per l’imbarazzo): forse rammenterete che tanti anni fa Sergio Zavoli fece un servizio alla radio pubblica, alla RAI, in cui intervistò una monaca di clausura; fu un pezzo memorabile che fece sentire alla radio voci che non si ascoltano mai. Vinse il «Premio Italia» e l’intervista fece il giro del mondo, diventando uno degli archetipi – come lei sa, sottosegretario Peluffo – della storia del giornalismo. Ecco, la radio è fondamentale.

Invito, dunque, i rappresentanti del Governo a non dimenticare questa particolare questione, che mi porta al senso del provvedimento in esame.
Ho sentito che colleghe e colleghi, a partire dal senatore Belisario, hanno svolto considerazioni molto aspre. Tengo a sottolinearlo perché, a nostro avviso, si tratta di un punto chiave della discussione. È stato fatto riferimento ad un elenco (peraltro distribuito con il dossier del Servizio studi) che riguarda le provvidenze dell’anno 2010, che si riferiscono all’anno 2009 (giacché le provvidenze vengono date l’anno successivo). Rilevo, e mi si smentisca se ho fatto male i conti che, nel momento in cui il decreto diverrà legge, circa la metà delle testate non entrerà più nelle griglie finalmente più rigorose previste dal testo, migliorato da qualche emendamento approvato in questa sede: mi riferisco all’occupazione a tempo indeterminato e alle copie vendute. Lo scandalo di molte testate aveva riguardato proprio l’assenza di tali criteri.

Non voglio affermare che siamo nel migliore dei mondi possibili. Anzi, vorrei utilizzare per fornire – e lo faccio un po’ arrossendo – una valutazione politica del provvedimento in esame, lo stesso sintetico commento che tanti anni fa portò il compianto Paolo Murialdi a considerare la legge 5 agosto 1981, n. 416 (l’unica riforma dell’editoria fatta in Italia e che ci auguriamo possa essere finalmente novellata da un progetto più ampio del Governo e del Parlamento), un compromesso positivo. Il provvedimento è certamente un compromesso tra una vecchia fisionomia delle provvidenze, figlia di un’epoca assistenziale, nata all’indomani della cosiddetta legge Mammì che ha disciplinato il sistema radiotelevisivo pubblico e privato (fu l’altra faccia del grande regalo fatto all’epoca al nascente impero berlusconiano), e la necessità di mantenere vivi le testate e coloro che vi lavorano prima che nell’epoca digitale si introduca una vera riforma adatta al tempo storico che stiamo vivendo. In sostanza, dobbiamo assicurare la possibilità di svolgere un’attività informativa anche a coloro che non fanno parte delle connessioni quasi tiranniche della stagione della televisione generalista commerciale e che non rientrano nei grandi gruppi editoriali.

Per questo è fondamentale mantenere in esistenza tante testate, testate di diversa fisionomia: testate politiche, testate di opinione, testate cooperative, testate locali (moltissime), testate non profit (molte più di quanto si supponga e per tale motivo era importante votare l’ordine del giorno sulle non profit). Dentro tale percorso s’inserisce finalmente un testo che moralizza e bonifica il sistema.
Siamo ad un passaggio, non al compimento, di una riforma. La conclusione dobbiamo rimandarla, ma per arrivare a quel punto dobbiamo avere un settore ancora ricco di opportunità e non un cimitero che ci fa pensare al passato.

Dovrà cambiare tutto, naturalmente e l’articolo 3 di questo testo è fondamentale. È evidente che la comunicazione digitale dovrà essere affrontata con altre regole e con un’altra cultura normativa. Come risulta evidente che il passaggio con cui si suggerisce alle testate analogiche di trasferirsi on line – non perdendo grande parte del contributo – è un modo per riuscire a rendere la comunicazione digitale democratica. Il nuovo mondo che si è aperto, la sua natura, i linguaggi, i riti, la semantica sono ben noti ai nativi digitali ormai quasi adulti, certamente nell’età di voto, che stanno on line in modo naturale e che vivono la rete come la propria dimensione intellettuale quotidiana, che non sono più attaccati al palinsesto televisivo come un dogma.

Ebbene, noi dobbiamo riuscire a costruire un ambiente democratico, un ambiente in cui possano vivere certamente grandi soggetti, ma anche soggetti diffusi e meno grandi. E’ per tutto ciò che è fondamentale il fondo dell’editoria, che deve essere piegato non ad assistere il figlio di qualcuno, ma i figli (tanti) di nessuno che, però, hanno il diritto a comunicare, ad informare, a vivere dentro l’universo della medialità diffusa, a vivere una cultura network, come recita un bel libro che ho qui sotto gli occhi, e non accentrata. Meglio tante culture che possano avvalersi di voci plurali. Sì, perché la difesa dell’articolo 21 della Costituzione, che assicura il pluralismo e la libertà nell’informazione è l’elemento chiave, la premessa generale di questo testo e degli altri che mi auguro, ci auguriamo tutti, potranno seguire.
Votiamo quindi con convinzione a favore sapendo di dare un contributo ad una battaglia più grande di noi.


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