I fatti li sapete. Pier Luigi Bersani, rifiutando la complicità del suo partito al non governement della Rai, stanti le norme partitocratiche che ne impediscono la governance, ha deciso di non designare i due consiglieri d’amministrazione Rai di “sua spettanza” (che ritiene, invece, non gli spettino) ma di lasciare le relative scelte a rappresentanze della società civile: Libera, Libertà e Giustizia, Comitato delle associazioni per la libertà d’informazione, Se non ora quando. Credo che ci sia stato un solo precedente analogo nella storia della prima repubblica, quando nel 1972-73 il leader liberale Malagodi, in quel momento anche ministro del Tesoro, rifiutò di far nomi e chiese ai giornalisti di scegliere un loro collega per il posto che sarebbe “spettato” al Pli. Scelsero Enrico Mattei, direttore della Nazione, lontano da tutte le tessere.
Le quattro associazioni hanno indicato Gherardo Colombo, 66 anni, docente, ex magistrato che irruppe negli antri della P2 (la mafia in camicia bianca), autore di saggi giuridici pieni di riferimenti (anche troppi, per i miei gusti) al Vecchio Testamento, sempre pronto a spiegare diritto legalità e processo a tutte le scuole italiane che da anni lo chiamano; e Benedetta Tobagi, scrittrice, giornalista, che ha nel sangue il Dna della cultura dell’informazione e del servizio agli altri. Chi non ha vent’anni ricorda suo padre Walter, socialista, sindacalista, scrittore, giornalista, assassinato dai terroristi, che proprio nella sua cultura vedevano il nemico del loro delirio antistatuale e antidemocratico.
Per una volta sono dunque anch’io sereno e felice, anche se Zavoli ha dovuto arrendersi alla scatenata demagogia di Di Pietro e rimandare a martedì le votazioni in Vigilanza. Esse dovrebbero confermare sia le scelte innovative della società civile sia quelle dei vecchi partiti di destra, con le loro vecchissime designazioni dall’alto. Articolo 21, una delle associazioni unite nel Comitato, ha fatto e ripete le sue felicitazioni ai due indicati, anche se non sono mancate accesissime discussioni sui nomi stessi e sui contenuti. Come sa il paziente Fammoni.
Quanto ai nomi, sappiamo che, per fortuna dell’Italia, innumerevoli sarebbero le persone degne di stare, per onestà, linearità, cultura e potere simbolico del proprio nome, non solo nel consiglio d’amministrazione Rai, ma nella stessa politica migliore e in ogni altra articolazione del mondo istituzionale, culturale e della comunicazione. Ma non potevamo accettare né schieramenti corporativi, né indicazioni plurime che contenevano la preferenzialità per una designazione continuista, nel senso di appartenenza a questa o quella area politico-culturale. In ogni caso, i nomi dovevano essere due, perché, se fossero stati di più, la scelta avrebbe finita per farla in secondo grado la segreteria del Pd. Che proprio questo voleva evitare.
Quanto ai “contenuti”, cioè alla specifica competenza dei designati in tema di amministrazione Rai, vale per Articolo 21 quel che ha scritto Nino Rizzo Nervo su Europa: “Al consiglio non spettano decisioni su programmi e conduttori ma funzioni ben più importanti: difendere la libertà e l’autonomia dell’impresa e dei suoi professionisti, credere nel mercato e nella concorrenza, garantire il corretto adempimento delle finalità e degli obblighi del servizio pubblico, creare le condizioni per una tv e una radio di qualità scegliendo, stavolta sì, le migliori competenze professionali in campo”. In campo, non solo in Rai. Come dimostra la storia di molti fra i migliori direttori di reti e di testate.