di Nella Condorelli
Domanda: che cosa vogliamo noi donne quando parliamo di riequilibrio della rappresentanza? Risposta: vogliamo la parità, che nella declinazione politica di genere significa 50 e 50. Sembra una considerazione pleonastica, scontata. Chi potrebbe essere contro il principio sacrosanto di parità? Ottenerlo, è tutto un’altro affare.
Nessuno ci ha mai regalato niente, e non perché gli uomini in quanto genere siano “cattivi”. Molto più concretamente perché la lotta per la parità si inquadra e conduce dritto dritto allo smantellamento della società patriarcale. In tutti i suoi aspetti, in tutte le sue forme di sfruttamento, storicamente radicati peggio della gramigna, mutevoli peggio di un dannato virus, una lotta globale. A nord e a sud del mondo, se è vero come è vero che in nessun paese, neanche nel Nord Europa, tanto meno nella diseguale società degli Stati uniti, la parità effettiva è un risultato acquisito. In Svezia, per fare un esempio che tutte conosciamo, ci sono vicini, e ci sono arrivati con una saggia politica di “quote” avviata da tempo, che accoglieva le indicazioni dell’Unione europea (quella di prima della svolta finanziaria), quando i governi svedesi erano socialdemocratici; oggi che governa la destra tira tutta un’altra aria, ed il web magazine Feministik Perspektive ne dà conto quotidiano.
Sono dunque schiettamente politiche e parlamentari, le variabili all’interno delle quali noi donne combattiamo la nostra titanica lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento del patriarcato, e delle relazioni sociali che esso impone innanzitutto attraverso l’ordine familiare. Sono in mano a chi detiene il potere, dunque in mano ai patriarchi, grandi e piccoli. Alla “cultura” del vivere e del produrre che hanno disegnato a proprio vantaggio, e mantengono. Perpetuando le diseguaglianze, proprio attraverso il cinico mantenimento della diseguaglianza primigenia, quella tra i due generi fondanti l’umanità. Per batterli, ci insegnano le dottrine politiche, occorre intelligenza politica, strategia, furbizia, alleanze e unità.
Faccio queste considerazioni – una vera e propria premessa – perché crediamo che contengano tutti gli elementi necessari per l’interpretazione e valutazione del testo di legge sul riequilibrio della rappresentanza negli enti locali approvato l’8 maggio alla Camera dei Deputati. E delle critiche che gli vengono fatte. Su due aspetti, innanzitutto: la questione delle quote di candidature femminile nelle liste elettorali per il rinnovo dei Consigli comunali (un terzo, pena la decadenza della lista), e la questione della nomina delle giunte comunali e regionali.
Accordo unanime, invece, sulla norma del testo che prevede la doppia preferenza, cioè la possibilità per l’elettore/elettrice di esprimere due voti, uno al candidato uomo, uno alla candidata donna, della stessa lista.
Parto schematicamente da qui: le donne hanno minori possibilità di essere candidate, votate, dunque di essere elette degli uomini che, alla boa dei primi dieci anni del Terzo Millennio, si tengono ancora stretto il posto nelle liste. La doppia preferenza favorisce il voto alle donne; ebbene, può sembrare paradossale ma la quota di un “terzo fisso” di candidature femminili previsto dal testo di legge garantisce più del 50 e 50 un numero maggiore di donne elette. Com’è possibile?
La domanda investe il principio di parità. Sacrosanto come principio, dal punto di vista sostanziale non produce lo stesso effetto. Giro la questione alla presidente della Rete per la Parità Rosanna Oliva, che ha lavorato ad alcuni emendamenti proposti al testo di legge dall’Accordo di Azione Comune per la Democrazia paritaria, l’autorevole think tank di associazioni attivo sulle proposte per la pari rappresentanza, promosso da Noi Rete Donne. “Il 50 e 50 aumenta il numero delle donne in lista e spalma il voto su più donne in quanto donne, dunque finisce per eleggerne un numero inferiore di quanto non garantisca la quota di un terzo.”.
Lo dico chiaramente, stando così le cose sono favorevole oggi al testo di legge, ma non arretro di un passo sull’obbiettivo della parità. Penso che se abbiamo scelto il cammino parlamentare chiedendo leggi, convinte che questo strumento democratico raccolga le esigenze espresse dalla società e promuova il cambiamento culturale, che favorisca un avanzamento in termini di presa di coscienza sociale verso l’obiettivo, che colmi un gap nella politica e nella società italiana fanalino di coda nelle graduatorie internazionali, sostenere i meccanismi che permettono nell’attuale contesto un aumento effettivo di donne elette è la nostra priorità di oggi.
Il timore di ri-trovarci con un pugno di mosche in mano è concreto.
Penso alla vicenda della legge Turco-Anselmi che nel 1993 (venti anni fa!) introdusse per la prima volta le quote a garanzia dell’elezione delle donne. Infinite critiche bersagliarono quelle norme considerate da una parte del movimento una forma di “tutela”. Oscuri sentimenti patriarcali tesero le braccia a quel dissenso, le destre variamente dette squittirono come non mai. Le donne si spaccarono, intervenne la presidente della Camera Nilde Iotti – ricorda Livia Turco –: “Sbagliate, non di tutela di tratta ma di garanzia.”. Quella legge fu poi impugnata dalla Corte Costituzionale, ma parte da li tutto il percorso che ha portato alla modifica dell’articolo 51 della Costituzione, fondamentale per una legislazione sulla pari rappresentanza.
Avveniva venti anni fa, nel Parlamento incrostato di ecumenica maschilità che ancora dibatteva se considerare la violenza contro le donne un reato contro la persona cancellando la vergognosa norma fascista di “reato contro la morale”. Sedici anni di dibattito ci sono voluti per arrivare alla sua approvazione nel 1996, da quel 1980 in cui il movimento delle donne aveva raccolto le firme per una legge di iniziativa popolare contro la violenza sulle donne – reato contro la Persona Donna. Sedici anni, venti anni per il primo testo di legge sulla pari rappresentanza…, non ci sono bastati? La storia non insegna?
Essere realiste, è secondo me la pratica più rivoluzionaria che oggi possiamo agire. La parabola berlusconiana iniziata nel 1994 si è chiusa nel 2011, sono quasi ventanni. Di mezzo, ci sono stati il porcellum, la famigerata legge elettorale che vogliamo e dobbiamo cambiare, il partito del leader ed il corpo ammutolito delle donne, riflesso dell’ipnosi della società, nello sterminato harem del pensiero unico mediatico permesso dalla mancanza di una legge sul conflitto d’interessi.
Il Paese che oggi abbiamo di fronte è un’Italia in profonda crisi, l’austerità dei tecnici colpisce come una mannaia indifferente ai valori, ai diritti e alle conquiste del lavoro, il degrado della politica fa fiorire forme molteplici di aggregazione e protesta anche nel movimento delle donne, e non è detto che siano tutte una palestra di democrazia.
Sostenere questo testo di legge che mette finalmente, e per la prima volta in Italia, un punto fermo sull’eleggibilità delle donne nell’ottica della parità, un testo ottenuto con un difficile lavoro di cucitura di alleanze dentro un ramo del Parlamento a maggioranza sopradescritta, e confronto esterno con le associazioni, significa praticare una real politik che a mio avviso rende più forte tutto il nostro percorso verso la piena cittadinanza. Nella misura in cui promuove una serie di positive reazioni a catena: aumenta il numero delle donne elette sui territori, si innescano i meccanismi per un cambiamento nel rapporto cittadinanza e politica, e last but not least spinge al cambiamento nel rapporto con gli uomini dei partiti, incrostati di comodo maschilismo.
Mi riferisco adesso ai partiti di sinistra e centro-sinistra, cioè quelli che mi interessano e nei quali mi riconosco, agli uomini innanzitutto, ai segretari ed ai quadri dirigenziali. Mettendoli in relazione con la norma relativa alla nomina delle giunte. Questa partita, nella casa delle sinistre, passa tutta attraverso la consapevolezza della cultura della parità di genere nel suo complesso.
Le nostre giunte di sinistra e centro-sinistra devono essere paritarie perché espressione di questa consapevolezza che ci rende diversi, moderni, normali. A casa nostra, non dunque per imposizione della legge, ma per la cultura dell’uguaglianza. Di cui è parte la pratica della relazione con la società civile delle donne, il suo pieno riconoscimento e presenza nell’azione programmatica da svolgere sui territori per tutti e tutte. Non è una novità e lo stiamo sperimentando in tante giunte comunali, deve diventare la “norma”.
E per quelle giunte dominate da equilibri stantii che usano il maschile per mantenere interessi personali e di bottega consolidati nel tempo, ci sono intanto le sentenze dei TAR e del Consiglio di Stato che da due anni, da nord a sud del Paese, danno ragione ai ricorsi ed alla lotta delle donne contro le giunte disequilibrate, o perché contrarie agli statuti o perché in contrasto con l’articolo 51 della Costituzione e le normative europee. Dentro ci sono donne di sinistra e di destra, unite su un’obbiettivo concreto. E’ un’alleanza fondamentale perché la pari rappresentanza riguarda tutte le donne italiane.
La “par condicio di genere”, a giudizio unanime uno dei risultati positivi permessi dal testo di legge approvato l’8 maggio, è strumento di questo cambiamento, un buon inizio.
Tocca a noi riempirlo di significato, e qui parlo anche alle colleghe giornaliste: l’adozione di un nuovo linguaggio mediatico nella sfera dell’informazione politica rovescia la logica del corpo assente, girando a favore della parità e della cultura della parità quello che sino a ieri era il sarcofago della nostra diseguaglianza: lo schermo tv.
Per il resto, nessuno ci regala niente, lo so per prima. E questo testo non è un certamente un regalo. Sarebbe bene che in Senato venisse ulteriormente migliorato, ma ci diranno le parlamentari se ci sono le condizioni perchè questo avvenga. E poi, nessuna legge ha mai esaurito in sé la necessità della lotta costante per i diritti, vigiliamo, e continuiamo.