Quel che ti cattura, dapprima, arrivando, è la dimensione dell’assenza. Assenza di rumori. Che non è silenzio. Perché il silenzio è il consapevole desiderio di non pronunciare parola, o la consapevole necessità di sostituirla al gesto, o la consapevole volontà di far parlare altro invece che le parole.
L’assenza di rumori e suoni è, al contrario, quel che resta di un furto: prima c’erano i dialoghi, i saluti ad alta voce, i pettegolezzi domenicali, le chiacchiere al bar, i capricci dei bambini o l’eco dei loro giochi nelle strade e nei cortili. Tutto è stato risucchiato nel boato di una notte, catturato e nascosto nelle crepe della terra.
In paese la gente riconosce la tua faccia, non sei dei loro, e forse proprio per questo sorride, e ringrazia con gli occhi mentre, spontaneamente, ti chiede se vuoi un caffè, visto che è domenica e sei lì cosi presto. Il bar è aperto, funziona, aggrega coloro che non possono fare altro che tenersi aggiornati sulle novità: quelle scritte in grande sulle locandine delle edicole, perché tra loro sono pochi quelli che riescono ancora a leggere il giornale. Loro, i vecchi, sì che parlano, e molti non parlano di sé ma di quelli che stanno peggio. Una solidarietà paesana che passa così, serpeggiando tra i sigari e una zolletta di zucchero, tra i <<mah!>> sospirati ed eloquenti che si accompagnano ad una scossa del capo, o a un tintinnare tremulo di mani.
So dove devo andare. Ho un biglietto, un nome, un numero di cellulare.
Lo spiazzo delle roulotte non ha niente a che fare con un camping. Ancora una volta è l’assenza a raccontare: mancano i tavolini da pic-nic, le coperte per terra per stendersi al sole, i cibi che si moltiplicano uscendo dai cartocci.
Mancano lo spazio, e il tempo: lo spazio per il divertimento e il tempo per concederselo.
E’ presto, molti bambini dormono, soprattutto quelli piccoli. Il contenitore di giocattoli, una cesta bianca da pane utilizzata come scatola comune, è ancora pressoché pieno, di fianco a un gazebo che individuo subito come il punto di riferimento di quel piccolo campo.
Per terra è rimasto qualche pennarello che ha pernottato, anche lui, fuori stanza, senza cappuccio -naturalmente- ; si sa che i bambini i coperchi non li rimettono mai sulle penne, per la fretta di passare da un colore all’altro. In auto so di averne tante confezioni, ancora complete. E fogli, e carta da pacco, colla, forbici, album da disegno: tutto quello che nella tabaccheria di mio figlio costituiva l’angolo della “cartoleria”. Ma capisco che è ancora presto per attivarmi, finché una bimba di poco più di sei anni mi chiede se quello che porto nella borsa, visibilmente pesantissima, “ sono un mucchio di favole per lei, perché a lei piacciono le storie.”
“C’è mia mamma, là, vuoi parlare con lei?”
Credo che abbia compreso il mio spaesamento, forse di persone come me ne ha già viste altre. Lei è diventata “pratica”, io sono solo ancora una dilettante.
La sua mamma sta organizzando le colazioni, è indaffarata, ma è subito a mia disposizione.
Trovo il mio spazio. Pianifico un altro tempo, che non è il mio, ma il loro: il tempo degli sfollati.
Appoggio il mio bagaglio sotto il tendalino che fa da veranda ad un camper, quello diventa il posto delle favole, e sembra il titolo di un film. La piccola mi aiuta ad allestire la veranda, come è la mia scuola, dice: questo da una parte, quello dall’altra, così non c’è confusione.
Sorrido del suo desiderio di preservare l’ordine lì, in quel luogo in cui la terra che trema mette giù di posto le zolle continentali, scompone gli equilibri geologici. Penso al verosimile disordine nella sua cameretta, dove il padre è andato più volte a prenderle i vestiti puliti per andare a scuola la mattina, e qualche giocattolo.
“Perché la mia casa è rimasta su…” e il papà ci va ogni tanto a tirar fuori della roba. Per fortuna non c’è andato quando sono tornate le scosse.
Le chiedo se vuole essere la prima a disegnare proprio la sua cameretta, quella che c’è nella casa con le crepe. Lo fanno, il disegno, lei e una decina di amici suoi, con la faccia lavata e pettinati, puliti come da domenica. Il mio tempo sarà il tempo delle loro storie, dei loro racconti. Ci stai, qui, anche a mangiare, vero?
FRAMMENTI DI CRONACA in un paese di frammenti (pomeriggio)
Si alza il vento quando ormai è il tramonto. E’ fresca questa sera di fine maggio che ancora non conosce l’estate. Mi vien spontaneo pensare che ormai è ora di rientrare, ma le parole mi restano in gola mentre mi chiedo come sarà “ rientrare” in una rulotte, per passarvi la notte. Eppure lo stesso sbaglio lo fanno le mamme, di chiamare casa quella sistemazione di fortuna. Venite a casa, bambini, che siete solo con la maglietta! Siete sudati.
Lo sono anch’io, accaldata. Ho speso voce e parole, e fantasia, correndo con i bambini in un sogno creato insieme, dove gli ingegneri costruiscono case solide su terreni non franosi, in città dove il paese vecchio viene congelato dal tempo, e rimane lì dov’è solo per fare compagnia ai suoi antichi abitanti , mentre si aggiungono case nuove e colorate. Le parole si cavalcano facilmente: in poco tempo siamo tutti muratori di un futuro prossimo, la gente vive in case che hanno ponti per raggiungere in fretta chi ha bisogno, e nel paese ci sono campi di atterraggio per mongolfiere per trasportare lontano quelli che nelle difficoltà hanno paura.
Bevo un bicchiere d’acqua e trovo nei pensieri dei bambini la sorgente di un pensiero prospettico, creativo, che cede al potere e al fascino dell’immaginazione.
Il loro presente sta sopra una zolla di terra piccola come le suole delle loro scarpe, tutto il resto è il dopo, il domani.
I più grandi credono di aver racchiuso il passato dentro al cellulare, mi mostrano cosa hanno fotografato del centro storico del paese. Immagini a campo corto riportano qualche mucchio di pietre, la foto di un paio di ragazzi della protezione civile, la strada davanti a casa loro. Non sono riusciti a inquadrare né la piazza né le palazzine più colpite, né la scuola o il municipio: sono reporter occasionali non abituati alle riprese di guerra.
Qualcuno dice che il passato sono le foto che ha fatto vedere la tv, o quelle di internet: scrivi su Google il nome del paese, clikki IMMAGINE e vengono fuori le foto. Vedi? C’è scritto un giorno fa, tre giorni fa, ieri. C’è chi mi spiega che cosa rappresentano, un crollo, un cedimento. Pochi sanno accostare i ricordi alle cose, legare le loro esperienze agli edifici che ora sono distrutti: ero piccolo, non lo so.
La memoria diviene allora un gioco collettivo. Gli adulti si avvicinano al gruppo dei bambini e i fili delle storie, quelle vere, si intrecciano. Matrimoni, battesimi e funerali; nomi di sindaci e di politici; personaggi che tutti conoscevano in paese; calamità naturali e tempi di prosperità; la vita agricola e i sacrifici del lavoro.
Quando tu sei nata, Lucia ti abbiamo portato in chiesa …
Voi figli non vi ricordate, ma i campi qui attorno…
Quell’anno venne la gelata, tua madre era piccola lei, e tu non eri ancora nato….
Sembra una scoperta, pare una novità, per chi parla come per chi ascolta, quel libro che stiamo scrivendo senza carta e senza penna: un libro di voci.
La giornata si era aperta nell’assordante silenzio, ora si conclude con un coro insolito: toni spessi, rochi, appesantiti dall’età si mescolano a quelli trillanti dei piccoli.
Il tempo e lo spazio delle storie sono qui.
Domani il racconto continuerà, come per una tribù attorno a un fuoco, in una terra – l’Emilia – in cui agli anziani si chiede di mostrarci le nostre radici.
*l’autrice è scrittrice e psicopedagogista