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Sardegna: valanga di sì per nuova politica

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Altro che antipolitica. Le scelte dei 525 mila elettori sardi che si sono recati alle urne per pronunciarsi su ben dieci referendum sono nette: non ne vogliono più sapere di dare deleghe in bianco a chi parla di riforme per poi piegarle alla realizzazione di strutture che favoriscono privilegi, sprechi, clientele

Esigono che la politica ritrovi la sua carica ideale di miglioramento del presente e di progettazione di un futuro che dia prospettive soprattutto alle giovani generazioni per le quali il buio è totale.

I dieci referendum erano stati lanciati da 120 sindaci di tutta l’isola e sostenuti da un movimento trasversale che aveva trovato nel partito dei riformatori sardi il suo cardine principale. Così, nonostante il fuoco di sbarramento tentato in tutti i modi da chi non voleva smantellare il nuovo assetto istituzionale del raddoppio delle province – dalle quattro storiche, alle otto attuali – inventato 11 anni fa, l’appuntamento referendario ha raccolto il 35.5 per cento delle adesioni, oltre due punti in più del minimo necessario (33.3).

Alcuni risultati sono stati davvero sorprendenti, perché anche alcune realtà territoriali che si pensava avessero tratto vantaggi dalla creazione delle nuove province (il Sulcis, il Medio Campidano), sono state tra le più attive nella partecipazione al voto. Tanto che il presidente della provincia di Carbonia-Iglesias, l’ex parlamentare e sindaco di Carbonia Tore Cherchi, traendo coerentemente le conclusioni da quel che è successo, ha rassegnato le dimissioni dall’incarico.

Gli elettori della Gallura, invece, per oltre il 70 per cento hanno disertato i seggi, dando così indicazione di non adesione alla proposta referendaria. Su questo dato c’è da fare una prima riflessione approfondita perché in realtà può essere successo che essendo stato proposto un voto unico per l’abrogazione delle quattro nuove province, potrebbero aver votato per la loro cancellazione anche gli elettori delle quattro province storiche, numericamente i più corposi.

Altro tema di riflessione. Il referendum con il sì meno alto (circa il 66 per cento) è stato quello, consultivo, sull’abolizione anche delle quattro province storiche (Cagliari, Nuoro, Oristano e Sassari). Anche in questo caso gli elettori hanno voluto dare una chiara indicazione, soprattutto se confrontata con le altre percentuali: 98 per cento alla riduzione dei consiglieri regionali da 80 a 50; 97 per cento alla cancellazione delle indennità agli stessi esponenti politici; 97 per cento all’eliminazione dei consigli d’amministrazione degli enti e delle aziende regionali.

Ora la palla ritorna dai cittadini alle forze politiche che non potranno più far finta di non capire. Se invece di tentare di rigettare lo strumento democratico e costituzionale del referendum, fossero entrate nel merito dei quesiti, come Articolo 21 sostiene da sempre nelle questioni che riguardano la trasformazione e la crescita del Paese, ora non si troverebbero di fronte ad una situazione d’emergenza che riguarda la ricollocazione di dipendenti, la stipula di contratti, l’attivazione di procedure operative nei loro territori. La normativa prevede che dopo la proclamazione ufficiale  dei risultati da parte della Corte d’Appello (ci vorranno probabilmente due settimane), il presidente della Regione avrà a disposizione cinque giorni per emanare un decreto abrogativo delle quattro province.

Insomma, i problemi non affrontati, rinviati, lasciati irrisolti per undici anni, dall’anno dell’istituzione demagogica e populistica della quattro nuove province, dovranno essere affrontati e risolti in meno di un mese.


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