E’ in libreria in alcune città – a Milano da Hoepli, a Milano Libri e alla
Feltrinelli, a Roma da Arion Montecitorio e da Fanucci Senato – “Italo Pietra,
1911-2011″ (p. 120, 10 euro), un omaggio, curato da Vittorio Emiliani, alla figura
del comandante delle brigate partigiane dell’Oltrepò che per prime entrarono a
Milano il 27 aprile 1945 eliminando le ultime resistenze nazifasciste. Pietra poi
fu inviato del “Corriere” e, soprattutto, direttore del “Giorno” per dodici anni e
del “Messaggero” nel 1974-75. Tutt’ e due le volte licenziato per ragioni
politicihe per volere della Dc. Il libro contiene alcuni articoli usciti per il
centenario della nascita, a cominciare da quello di Corrado Stajano su “Corriere”,
e testimonianze di amici come Luchino Dal Verme, intervistato da Gigi Giudice, che
fu con lui in montagna nel terribile 1944-45, Angelo Del Boca che lo conobbe ad
una riunione di capi partigiani a Bobbio nel ’44 e poi lavorò a lungo al “Giorno”,
Giorgio Ruffolo che fu con lui nella corrente socialista dei “giovani turchi” e
poi nella cerchia di Mattei, Livio Garzanti che ospitò i suoi primi articoli sulla
“Illustrazione Italiana”, Antonio Airò altro redattore del “Giorno”, Tullio
Pericoli disegnatore al “Giorno”. Il libro contiene una biografia dettagliata del
comandante “Edoardo”, una analisi di Ambrogio Arbasino dei suoi ormai introvabili
libri e una breve antologia di scritti dello stesso Pietra.
Guardamagna Editori
Estratto da libro:
Oltrepò, vita santa*
Il 7 di agosto 1945 è un caro ricordo di vita partigiana, quel giorno abbiamo disfatto e decimato brigate e divisioni, memoranda vittoria.
Quel giorno si è stabilito che fra noi, del pavese, non ci sia posto né carta per i mille e mille dell’ultima ora. Così certe formazioni di città e di pianura, venute in fama e numerose all’ora delle sfilate, sono state rastrellate d’amore e d’accordo, a tavolino, nome per nome. In provincia non ci saranno che 2000 certificati da partigiani, e 1000 da patrioti (i caduti sono trecentotrentadue). Per esempio, una divisione di pianura che vantava 800 armati, avrà cinquanta certificati.
Ma fra tanto sperare e parlare di certificati anzianità benemerenze, dico che nessun foglio di carta spessa e nessuna patacca valgono il ricordo della nostra bella vitaccia lassù, partigiani di questa umile Italia.
Quando saremo a Varzi
nella caserma alpina
ti scriverò biondina
la vita del partigiano
La vita del partigiano
si l’è una vita santa
s’ mangia, s’ bev, as canta
pensieri non ce n’è.
Pensieri ce n’è uno solo
l’è quel della morosa
che gli altri fanno sposa
e mi fo il partigian.
Dunque, questa canzone è nata un anno fa, d’agosto, nell’Oltrepò pavese, quando là, su per le montagne che guardano Varzi, e vedono il gran mare di terra bianca e verde fino alle Alpi, vivevano tre brigate, e non avevamo avuto neanche un lancio.
Eravamo tre brigate, eravamo mille armati, eravamo padroni di una zona libera fatta di sette valli, di ventidue comuni, di cinquantamila abitanti; ma il magazzino armi e munizioni era ancora sulla via Emilia, ogni arma un agguato, così tanti ragazzi, come Armando, Bianchi e Walter, sono morti con la faccia sull’asfalto. Non avevamo avuto neanche un lancio.
Da Pometo capitale della Matteotti, da Zavattarello garibaldino, dal vecchio bel Romagnese tutto ribelle, scendevano a sera i gialli camion partigiani della Wehrmacht verso gli agguati al Po e lungo la via Emilia. Ecco Alfredo il moro col cappello alpino, ed ecco, col berretto da SS, Fusco, che quasi ogni notte si guadagna una uniforme, e Maino senza cappello conte Luchino dal Verme garibaldino. Ed ecco il padre dei garibaldini pavesi, è quel pallido ragazzo sui vent’anni, col braccio al collo in una fascia rossa: si chiama Americano, ed è italiano, studente, comunista. Quello in piedi che ride senza denti, porta scritto con filo d’oro sulla camicia rossa “Caramba dominatore dei falsi profeti”, ma una sera le brigate nere lo prenderanno vestito da prete in una osteria di Casteggio, e andrà al muro come spia.
Ragazzi morti, ragazzi vivi, ormai sembra un sogno, ma chi ricorda quelle sere piene di fisarmoniche, sten, ragazze, buoi squartati, polente, automobili, camicie rosse, mele cotte, scabbia, pidocchi, messaggi speciali, sangue di Giuda, sigarette tedesche, cioccolato americano, cappelli alla garibaldina, ex prigionieri inglesi, capisce perché certi ragazzi, che in montagna hanno combattuto per la libertà, oggi sono quasi prigionieri di quel sogno.
Verso l’alba si sentivano i motori,e allora, per esempio a Romagnese, la gente correva al vecchio muro del castello, dal muro guardava lontano come dal ponte di una nave. Ecco alla svolta il ’34 della Sesta Brigata, cantano, c’è il bandierone delle nottate d’oro, questa volta sono sacchi, saranno sacchi di zucchero, ecco anche un camion giallo che deve essere l’ultima preda; si vede ruzzolare una forma di parmigiano, ci sono quattro tedeschi, quello è un ufficiale della repubblica.
Il comandante della Sap corre a far suonare a festa il campanone; il comandante che si chiama don Alberto Picchi, parroco del paese.
La caserma era morta; il colonnello non capiva; non poteva proprio capire. All’ora solita era uscito dall’albergo Italia, e tutto era come sempre; gente per le strade, tedeschi alle cantonate; così il colonnello era andato passo passo verso la caserma, una grande caserma quasi vuota, verso il solito “Novità N.N.” del mattino. Voghera è una sede ben tranquilla, a quattrocento chilometri dalla linea gotica, a venti chilometri da quei fanatici di partigiani; questo pensava il colonnello andando verso il viale, e, proprio in quel punto, tra nebbia e piante nude e foglie morte, c’è stata la cosa nuova, la cosa mai vista alle nove di mattina.
Teneva le finestre chiuse, teneva le persiane abbassate, ed erano come occhi chiusi, teneva chiuso persino il portone; la caserma non dava segni di vita, ed erano quasi le nove. Il colonnello non capiva, certo il colonnello non poteva sapere la storia di Babi, Bobi, Bibi, Bubi.
In agosto, per ordine del comando garibaldino, quei quattro ragazzi erano andati ad arruolarsi nel battaglione San Marco, poi per molte settimane avevano attesa quella che sotto la naia è sempre stata una brutta sera; e la cosa era venuta proprio il giorno avanti, quando a forza di sostituire compagni e di marcar visita, erano capitati tutti insieme di servizio alla porta.
Questo attendevano quelli della montagna, e subito quattro partigiani erano partiti, in borghese, per Voghera, per una casa di Voghera dove il comitato teneva pronte quattro divise da San Marco.
Così la sera avanti, forse il 20, forse il 21 ottobre 1944, quattro faccie nuove, tre ragazzi e il vecchio Poldo, pompiere di Milano, erano entrate in caserma, avevano fatto un bel saluto al piantone (era il nostro povero Babi, quello dal naso un po’ storto, quello che hanno ammazzato in gennaio a Cantalupo, ma prima, ferito, lo hanno trascinato per il paese dietro un cavallo al trotto, gridava un colpo, ancora un colpo per carità) e se ne erano andati a dormire in una stalla vuota.
A mezzanotte, presso un cancello fuori di mano, si sente un rumore di motori, poi c’è qualche parola fra gente di strada e i tre di Poldo in attesa, infine due camion partigiani entrano nel cortile pieno di nebbia.
In camerata, tedeschi e italiani sono destati ad uno ad uno, con lo Sten sotto il naso. Si stropicciavano gli occhi, dicevano “scherzi balordi, scherzi del cavolo, andate a dormire”, poi vedevano i fazzoletti rossi e le faccie dure, e si rivestivano in fretta. Quarantadue nemici da sveglia- re con garbo, poi i due camion, con la preda di uomini, benzina, coperte, munizioni, scarpe, se ne vanno. A quattro passi, c’è il posto di blocco tedesco, e per questo, per far le quattro chiacchiere in tedesco, sono al volante, bene in vista in cabina, con le vecchie uniformi, Praga, Kladno, Brno, Bratislava; così, ai vecchi partigiani cecoslovacchi davamo il nome delle loro città.
Poi bisogna svoltare a destra, proprio là dove fa angolo il vecchio castello delle prigioni, quello dove il nostro povero “Carli”, una sera di settembre, con uno Sten, due bottigliette di cloroformio e tre gap ha liberato quattro prigionieri politici. Ma da adesso la repubblica tiene gli occhi aperti, e i mitra senza sicurezza.
L’ultimo posto di blocco tedesco è a Rivanazzano, poi si risale la valle, viene incontro l’aria dei monti; si può cantare.
Quando suonano le nove, e l’orologio era l’unica cosa viva nella caserma morta, il povero signor colonnello agisce finalmente d’iniziativa, va a chiamare i tedeschi, e i pompieri.
Allora il colonnello Steinbrecker ha tagliato in due la torta e, dopo tanto parlare in tedesco, ha detto in italiano: “Come la torta, qui tedeschi, qui partisani” ma gli italiani non capivano, così hanno riso tutti Insieme.
Sul tavolo c’era una bella torta gialla, con bottiglie e bicchieri, e intorno alla tovaglia bianca e turchina stavano due ufficiali tedeschi, e don Alberto di Varzi, e due partigiani; uno era il commissario Piero, quello della piazzetta di Dongo, il 28 aprile, ma chi sa il nome dell’altro? Erano nomi di battaglia, e poi i nomi non contano, era un garibaldino. Era il 14 o il 15 di novembre 1944. Ai vetri s’affacciava un paesaggio di terre arate e di foglie morte sotto un cielo bianco; così è l’autunno su da noi, quando la neve è vicina; eravamo in Valle Ardivestra a 15 chilometri da Voghera, a quattro passi da quella illustrissima pieve romanica che ormai è solo una legnaia rossa e triste. Era terra partigiana, terra libera e gli ufficiali tedeschi erano venuti su da Voghera con le bandiere bianche; quel bianco valeva la parola d’onore dei partigiani. Ed ecco l’interprete traduce . un altro inverno è vicino … gli alleati sono lontani e fermi. . vi aiuteranno solo a parole, per radio, come l’inverno passato, e voi sarete soli, un altro inverno, sulla montagna…il comando tedesco vi offre libere le valli che ora sono vostre…non dovrete lasciare le armi…vivrete senza alcuna molestia, e i paesi della vostra zona avranno dopo tanto tempo la posta, e sale, olio, tabacco, zucchero secondo le razioni. Voi beninteso, non potrete uscire dalla zona, dovrete senz’altro sospendere gli attacchi contro la via Emilia e ai traghetti del Po…ci saranno due zone, una tedesca e una partigiana, così avremo la pace. Come dice la torta, qui partigiani, qui tedeschi”. Ma la torta non c’era più, se l’erano mangiata; così hanno riso tutti insieme: questa volta almeno si capiva perché.
Senza pensarci su, il garibaldino risponde che questo si può fare, fermare la guerra va bene, bisogna però definire i confini della zona libera. Subito gli ufficiali tedeschi distendono una carta sul tavolo, guidano con sicurezza le dita lungo la via Emilia, verso Voghera. Ed ecco ancora la voce del garibaldino, dice: “Questa carta non va bene”.
Perché, dicono i tedeschi, perché non va bene questa buona carta al 100.000. Si vede un sorriso negli occhi chiari e fermi di quei vecchi ufficiali.
Questo ragazzo non è che un italiano, e non ha nemmeno uniforme; forse non sa leggere la carta.
“Non va bene perché è troppo piccola, non va bene perché non arriva al Brennero. Noi fermeremo la guerra quando voi tedeschi sarete al di là del Brennero”.
Allora il colonnello tedesco è balzato in piedi, si è visto cadere il monocolo, si è sentito il colpo degli speroni, e intanto è venuta anche la risposta, il colonnello tedesco tendeva la voce come una corda.
“Italiani senza onore, noi ufficiali tedeschi non possiamo trattare con voi, manderemo i mongoli a trattare con voi, e con le vostre donne. Rastrellamento, questa è l’ultima parola della Wehrmacht”. Ma il partigiano ha parlato ancora, ha detto: “Un giorno, i rastrellati rastrelleranno”. Con questo gli ufficiali tedeschi se ne vanno, la macchina gialla con bandiere bianche passa per Godiasco e per Salice fra i partigiani che guardano senza aprir bocca, corre verso le città proibite, dove donne tristi pensano a noi.
Poi è venuta la neve, era il 23 di novembre, allora è venuto il grande rastrellamento (dei Mongoli della Turkestan, n.d.r.). Ecco gli alpini e i bersaglieri di De Logu, che cantano alla tedesca “per l’Italia, per l’Italia” e vuotano le case, ecco gli austriaci della stella alpina belli e terribili, ma avanti a tutti vengono i kirghisi e i calmucchi e i mongoli del 162° reggimento, guai alla donna che passa per la vita di queste bestie matte.
Da Montalto e da Rocca Vistarino venivano avanti nella nebbia su un fronte di pochi chilometri, e intanto i 75 e i 149 e i mortai da 80 scuotevano i boschi e le case. Quando un ufficiale tedesco cadeva, la vendetta era di case bruciate, di uomini al muro, di donne giovani.
Chi sa fermare una valanga?
I partigiani erano senza cannoni, le mitraglie avevano pochi colpi, non fu che un lavoro disperato di imboscate, e di agguati; fu la tetra vita dei boschi, Pietracorva, Valformosa, Pizzocorno, Oramala, Valverde, soli come lupi. Dall’alto delle grandi montagne bianche e nere, dal fondo dei boschi pieni di neve, si sentiva l’urlo dei mongoli, e i gridi delle donne; di notte gli incendi dei villaggi sventolavano all’orizzonte.
Settanta giorni è andato avanti il rastrellamento, settanta giorni.
Così i partigiani hanno imparato a riconoscere i cani alla voce là nei silenzi della montagna, così hanno imparato a memoria i cieli di notte, settanta giorni; ma chi può mai sapere le donne violate, chi può sapere tutti i nostri morti, ragazzi senza nome, poveri ragazzi senza tomba?
Noi andiamo verso la città. In testa va la moto di Gim e di Ciro, poi viene la macchina del comando Zona, poi vengono otto camion pieni di partigiani che cantano.
Alle nostre spalle, a destra e a sinistra dei camion, si vedono, lontano, le colline dove eravamo ieri, e le montagne dove un anno fa siamo nati partigiani. Da una parte sta il rosso e il verde di Cigognola, e in fondo al palazzo del castello dormono nove partigiani. Dall’altra parte si vedono le gobbe del Penice; di là da quei monti c’è Vesima, con la chiesa bianca e il sagrato, e un anno fa sull’erba del sagrato hanno disteso Diego e Chicchiricchì, e quattro altri ragazzi, erano tutti feriti, poi li hanno finiti con bombe a mano, sangue e pezzi di carne sull’erba davanti alla chiesa. E adesso noi andiamo verso la città di Diego, e i compagni di Diego cantano, così è la guerra.
La strada va in mezzo ai prati, si rivedono i filari di pioppi, e le vecchie rogge lombarde che non si sa dove vanno a finire, e oggi la pianura lombarda è piena di colonne tedesche che non si sa dove vanno a finire; è il 27 aprile, noi andiamo verso la città da liberare.
Ieri abbiamo lasciato Carli a Voghera, e Marco a Casteggio, e Carlo a Cigognola, e poi tre ragazzi presso Zinasco al traghetto del Po, e adesso sono in mezzo ai fiori;’poi abbiamo lasciato trenta ragazzi a Pavia, e intanto ne sono anche caduti ventidue a Vigevano, e adesso sono tutti in mezzo ai ceri e in mezzo ai fiori. Un’ora fa alla Certosa, abbiamo preso duecento tedeschi, dieci minuti fa a Binasco due caccia inglesi hanno distrutto un nostro camion, sangue, ancora sangue sull’asfalto. E certo ancora qualcuno di noi deve morire questa sera laggiù nella città da liberare, i partigiani cantano, così è la guerra. Eccola finalmente dopo tanti mesi, manca il respiro, adesso i partigiani non cantano più; la madonnina viene avanti adagio adagio sui tetti e sulle piante. Poi Milano è davanti ai nostri occhi, si sentono le fucilate lontane dei tedeschi che aspettano noi; la voce del commissario Piero canta, “O mia bela madunina, ti te dominet Milan”; è quello che fra tre ore partirà per Dongo.
Adesso andiamo tra case e naviglio, le fucilate tedesche ci aspettano al centro, la gente grida, noi non siamo che cinque ragazzi vestiti di lana inglese in una macchina tedesca con bandiera tricolore; e abbiamo paura di Mussolini. C’è tanta gente che grida, si capisce che la guerra se ne va, si capisce che la libertà viene avanti sull’asfalto con le nostre automobili tedesche, ma noi abbiamo paura di Mussolini, la segreta paura che uno di noi balzi in piedi, come lui allora, e guardi e saluti dall’alto il rosso e il nero della folla, come lui allora. E invece noi siamo partigiani, e i nostri nomi dovranno morire, appena la guerra sarà morta.
Sono belli i nostri ragazzi con gli occhi lontani, con le belle divise gialle americane; ma, accidenti, è Italia, non gridate, non gridateci più “Welcome, welcome”.
Così noi entriamo nella città piena di bandiere rosse, di tricolori, e di fucilate, nella città dove tutti quelli che ci guardano hanno gli occhi rossi.
* Articolo pubblicato nel dicembre 1945 nel volume “Anche l’Italia ha vinto” (numero speciale della rivista “Mercurio”).