Forse nessun paese in Europa come l’Italia, saturnia tellus, per gli antichi, e sfasciume geologico pendulo fra due mari, per i moderni, avrebbe bisogno di una politica che facesse coincidere sviluppo, occupazione e difesa del territorio, prevenzione compresa. Una politica giapponese, anch’essa coi suoi limiti, come nell’impari lotta con lo tsunami. Lo si dice ogni qual volta un terremoto, un’alluvione, una frana pongono il problema. E l’auspicio è sempre quello di un governo che invece di recitare per la platea di oggi pensi a quella di domani: superministero delle strutture, della coesione territoriale, dell’ambiente, della prevenzione e protezione civile, e portafoglio in proporzione. Una volta i geografi descrivevano la Valle Padana come una felice eccezione di natura, sottolineando il suo disegno di triangolo limitato nei due lati più lunghi dalle montagne, Alpi e Appennino, e per il terzo dal mare.
Modellato e irrigato dal Po e dai suoi affluenti. Ma Einaudi tolse alla natura questo dono e lo riconsegnò all’opera dell’uomo: i miei settentrionali, scriveva nel dopoguerra, nel corso dei millenni hanno spianato colline, alzato dighe, incanalato acque, protetto le pianure, rendendo ricca e fertile una terra che non era nata così. Lo scriveva a noi meridionali perché avessimo fiducia contro il destino descritto da Fortunato di terra consacrata alla frana, alla malaria e al terremoto.
Purtroppo, anche la nostra generazione, diventata antileopardiana e illuminista con la vittoria della ricostruzione e il successivo “miracolo”, dovette presto prendere atto che la variabile indipendente della politica italiana, la fragilità fisica del paese, era uguale per tutte le regioni: anche se c’erano italiani che sapevano combatterla e italiani che oziavano nel subirla. Era stato un marchio del destino che Roma capitale vedesse il re d’Italia non dopo il 20 settembre, ma a dicembre, portatovi non dai bersaglieri ma dall’alluvione del Tevere, che sommerse la città e offrì ai nuovi governanti la scusa per andare al Quirinale, senza traumatizzare troppo il papa che fulminava gli “usurpatori”.
E quando, negli ultimi vent’anni dell’ ‘800, l’Italietta aveva portato la sua rete stradale da 82 mila a 140 mila chilometri, e la produzione agricola era cresciuta di 6 milioni di lire e quella industriale di 4, e la legge sul risanamento di Napoli ne stava risanando il “ventre” coleroso, tragicamente denunciato da Matilde Serao, ecco la catastrofe di Reggio e Messina coi 100 mila morti, la più grande catastrofe europea della modernità, ecco capovolgersi bilanci, economia, programmi di sviluppo e gonfiarsi la marea degli emigranti: 3 milioni e mezzo nelle Americhe e oltre l milione e mezzo in Europa fra il 1901 e il 1910.
E mentre il paese, ancora prostrato dall’impresa di Libia e alla vigilia della prima guerra mondiale, con tutte le industrie sotto pressione per preparare un esercito di milioni di uomini privi di quasi tutto, ecco dalla Marsica il Buon Anno 1915 con 25 mila morti, compresi molti soldati che stavano lavoravano ai danni dei precedenti terremoti, grani di un rosario infinito. Hai voglia a imprecare contro lo sfasciume e a consolarti che, nonostante quest’ira di Dio, nel ventennio precedente i ragazzi delle scuole medie erano triplicati (da 34 mila a 94 mila), erano ancora 2,8 per mille abitanti: ai disastri della madre terra si affiancavano quelli dell’incultura, specie popolare e piccolo borghese, terreno buono per il nazionalismo, l’interventismo, il fascismo, il colonialismo, sempre con la promessa di “terra e pane” a reduci, legionari, coloni, al popolo “ricco di braccia e povero di risorse”.
Questo intreccio infido di fatica umana e di devastazione della natura, continuò, insensibile a ogni cambiamento di regime, nel secondo dopoguerra. Nascendo, facemmo in tempo a vedere nel 1944 l’ultima eruzione del Vesuvio su Napoli, appena liberata e stuprata dagli Alleati. Erano passati tre anni dalla nuova Costituzione, e mentre l’incremento delle abitazioni toccava nel ’51 il punto più alto del Piano-casa a Milano, Roma, Bari, Mestre, cominciando a vuotare i “tuguri” e a liberare dalle lamiere gli archi dell’Acquedotto Claudio, ecco l’alluvione del Polesine abbattere il mito della Padania felice. Nasce il magistrato del Po, ma muoiono a migliaia case, cascine, fabbriche, animali, chilometri di strade e ferrovie.
Sembrava che l’Adriatico si fosse mangiata la terra fino a Rovigo e a Ferrara. E il 13 per cento dei 47 milioni di italiani restava analfabeta. Suole o case? Si provò a crearle entrambe, sempre con dirottamenti di bilancio imposti dalla variabile naturale: 300 morti nell’alluvione di Salerno nel ’54, frana del Vajont, devastazione di Firenze nel ’66, ancora una volta rimodellata dall’Arno come nei secoli, ma con perdite da affanno mondiale; altri terremoti e frane fino all’ottobre dell’ ’80 quando, nella catastrofe campano-lucana, finiscono 6000 morti e 10 mila feriti: arriva Pertini, arriva Zamberletti, nasce sul posto la protezione civile, grandi improvvisatori gli italiani, e si constata il marciume dell’Italia affaristica: sono crollati i palazzi in cemento “armato”, ma sono rimasti in piedi, perfino nel cratere irpino, i campanili longobardi dell’antico Ducato di Benevento.
Il resto, dal Belice a Sarno e alle Cinque Terre e a Genova, potete ricordalo da soli. Nel frattempo, abbiamo accumulato 2000 miliardi di debito contro 1600 di Pil, e non siamo riusciti a darci una legge “giapponese” e a imporla con la forza. Non potremo certo chiederla ora, in pieno allarme rosso da default, ma scriviamo queste cose a memoria dei governi futuri.