di Enzo Costa
Dunque il vicesegretario vicario di Maroni sarà un veneto. Non conta che sia un norma statutaria a sancire l’aureo principio “segretario lombardo, vice veneto”. Conta che la scelta, in barba al proclamato rinnovamento con sfoggio di ramazze, ribadisca un tratto atavico del Carroccio: la mistica del territorio. Qui elevata a regola gerarchica: pure se (oltre a Maroni, beninteso) la Lombardia pullulasse di leghisti geniali, statisti di Cantù, capi carismatici di Lodi, guru di Pavia, essendo il nuovo segretario lombardo, il suo vice sarà veneto.
Anche se (ipotesi di scuola, per carità) sul mercato ci fossero solo veneti incapaci. E se il miglior vice possibile fosse friulano? Dovrebbe sposare una vicentina? Proporsi come oriundo, mercé il nonno di Chioggia? Inconcepibile, poi, un vice avellinese doc: siamo assuefatti all’idea che esista un partito chiamato Lega Nord. Immaginiamo una regola simile negli altri partiti: il vice di Bersani, o di Alfano, o di Di Pietro, deve essere umbro. Sai le risate. Invece con la Lega è normale: il territorio batte il merito.
Merito anche della nefasta retorica sul radicamento spacciata per anni da pensosi editorialisti nazionali: hanno scritto e riscritto che essere radicati al territorio era di per sé garanzia di virtù, chiudendo due occhi su certe tipiche declinazioni territoriali della politica, dalla xenofobia al disprezzo straccione, ma genuino e “popolano”, per il pensiero, la cultura, il parlar civile. Nobilitare e compiacere le piccinerie localistiche ne ha favorito il tramutarsi in forme familistico-tribali con annesse pendenze giudiziarie. La territorialità a prescindere si estrinseca anche nella ristrutturazione con soldi pubblici del proprio terrazzo. Chissà che ne pensa il futuro vicesegretario, veneto a prescindere.
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