Si dice che le marce della pace sono strumenti di parte, che lanciano il loro grido nonviolento in una direzione sola. È il rimprovero cui non sfuggì neanche l’antesignana delle manifestazioni per la pace italiane, quella Marcia che si svolse tra Perugia e Assisi… il 24 settembre 1961 con l’organizzazione del Centro per la Nonviolenza diretto da Aldo Capitini, il grande filosofo italiano della nonviolenza. Un evento che vide una grande partecipazione popolare e nel quale fu per la prima volta dispiegata al vento la bandiera arcobaleno, simbolo dell’opposizione nonviolenta a tutte le guerre. La 2a Marcia per la Pace si svolse l’anno successivo a Cagliari con la «commossa partecipazione dei cittadini alle relazioni, ai progetti e agli auspici per l’attivazione di un mondo aperto e civile», come ricordava la nostra conterranea Elisa Nivola, docente universitaria di psicologia.
Ma un pacifismo realmente strumentale non si reggerebbe se non facesse appello a un fondo condiviso e autentico di volontà di pace, che a mio avviso è ancora il sentimento dominante tra i popoli Europei. Ed è questo il motivo per cui, 50 anni dopo quell’evento promosso da Capitini per ricordare le vittime del bombardamento a Cagliari del 13 maggio 1943, ci siamo ritrovati ancora in tanti a marciare per la pace, al di là di qualunque bandiera di partito. Tra noi anche Giuliana Sgrena, la giornalista del Manifesto rapita in Iraq nel 2004, unitasi al cammino per chiedere la liberazione di Rossella Urru, la cooperante di Samugheo rapita in Algeria lo scorso 23 ottobre insieme ad altri due cooperanti spagnoli.
Ma perché, dopo un numero infinito di marce più o meno fruttuose, camminare ancora insieme in nome della pace? Perché oggi è ancora più urgente che in passato il bisogno di pace e la necessità di riflettere sul significato vero di questa parola, al di là della retorica che la circonda. Molti di noi sono convinti che la pace sia assenza di guerra, e che chi abbia a cuore la pace debba interessarsi solo delle ostilità armate. Questo è certamente vero, ma non basta. Noi crediamo infatti che nel concetto di una pace vera vada incluso anche il riconoscimento e il rispetto dei diritti umani per tutti, soprattutto per quei milioni di persone che vivono in situazioni di miseria e di conflitto, prive di qualunque diritto: perché il fondamento della pace è la giustizia.
È per questo che ieri abbiamo marciato non solo per riaffermare il nostro ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie tra popoli, ma anche per chiedere la chiusura dei poligoni militari e la restituzione dei terreni alle popolazioni, perché siano riconvertiti in attività pacifiche e produttive. E a conclusione della Marcia ho esposto il sogno che un giorno il Papa, affacciandosi alla finestra in piazza San Pietro, dispensi tutti i cattolici del mondo dalla partecipazione alla messa domenicale e li inviti a riversarsi nelle piazze a gridare, come Papa Giovanni XXIII ci ha ricordato già nel 1963 nell’enciclica Pacem in Terris, che la pace e la guerra sono incompatibili: «portare avanti la pace con la guerra è alienum a ratione»; tradotto letteralmente, non solo è impossibile ma è addirittura «roba da matti». Sono convinto che il peccato più grave per un cristiano non sia individuale ma sociale, e cioè la nostra indifferenza e la nostra rassegnazione a un mondo dove ancora l’uomo progetta la morte di altri uomini.
*Comunità “La Collina” di Serdiana (CA)