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Joan Mirò. La magia della realtà

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Al Chiostro del Bramante di Roma (fino al 10 Giugno) è possibile immergersi nella poetica dell’artista sperimentatore, che elevò l’insignificante a sublime armonia.
Fra l’eclettismo radicato nella realtà di Pablo Picasso, permeato di coscienza oggettiva, e la visione surrealista in cui sogno e veglia, realtà e irrealtà, logica e immaginazione si compenetrano, si insinua vitale e generoso l’astrattismo “narrativo” di Joan Mirò. Il cubismo picassiano aveva spogliato di ogni residuo romantico la figura dell’artista, annullando ogni illusionismo per ricreare una bellezza fondata su accordi innovatori.

Il Surrealismo, nelle sue variegate espressioni aveva ricercato il “nuovo” e il “meraviglioso” in una comunicazione totale dell’uomo con la realtà. Mirò, con la sua leggerezza pensante, estende la profondità dell’artista nel trasmettere “il lato magico delle cose” senza censure né omissioni, con chiarezza di esposizione e naturalezza delle forme, sottraendole al loro peso materiale. E’ la terra, la materia prima della sua ispirazione.

“Noi catalani pensiamo che bisogna tenere i piedi saldamente piantati al suolo, se si vuole saltare in alto”, diceva: per spiccare voli pindarici, attraversando il silenzio delle parole e la purificazione dei colori e dei suoni, che affiorano dai sotterranei del cuore, in un tempo presente dilatato all’orizzonte, riassorbendo la percezione del passato con la determinazione verso il futuro. E poi, il cielo “spettacolo che mi sconvolge, con la sua immensità, animato dal  sole e da uno spicchio di luna”, che si può anche raggiungere salendo una scala colorata, come nel suo celebre olio del 1926, ”Cane che abbaia alla luna”. Terra e cielo, l’infinito e il finito, un dialogo fra opposti che lo impegnerà tutta la vita.

Così come l’attitudine e la passione per la sperimentazione, che fino alla soglia dei novant’anni non l’abbandonarono mai, intento a rielaborare nuovi codici espressivi, come  evidenzia la mostra “Mirò – Poesia e Luce”: un itinerario in 80 opere, dalla metà degli anni ’50 in poi, con uno sguardo particolare alla sua passione per la pittura orientale e alla curiosità verso l’espressionismo americano degli anni ’70.

Si avverte appena la mancanza delle minute figure stravaganti ed evanescenti di cui sono ricche le sue tele più conosciute: stelle, lune, bruchi, pesciolini e insetti fluttuanti nel firmamento, i pistilli e i filamenti arabescati a formare una sottile tessitura musicale, sovrapposta ai fondali profondi come la notte e accoglienti come l’alba . Le costanti dell’arte di Mirò e il suo incanto sono comunque tangibili e ci orientano per non farci smarrire attraverso un insolito itinerario nella sua poetica. C’è la meditata ricerca formale della sintesi, la grazia del segno, la limpidezza dei colori, l’intuizione di una spazialità originale, oltre il naturalismo e il surrealismo. Ci sono i suoi vuoti costruttivi, fantastici, colmi di energia. L’intensità dei dipinti monocromatici, interrotti da piccoli punti strategici che aprono le porte segrete dei desideri.

Introducono i visitatori alla mostra grandi tele dominate dal bianco e dal nero steso con grandi, energiche pennellate. Tagli di colore contrastante, orizzontali o verticali, attraversano con eleganza orientale le superfici: solo sparuti puntini rossi, gialli o blu, posizionati con disciplinata armonia, contestualizzano l’apparente staticità. “Per arrivare all’animo bisogna innanzitutto provocare una sensazione fisica”, diceva Mirò, “con emozioni libere di muoversi senza costrizioni nel vuoto accogliente.

Tutto quello che è spoglio mi ha sempre profondamente impressionato”. Gli anni Sessanta furono segnati dalle importanti mostre a Kyoto e a Tokyo, dalla passione per l’Haiku, forma brevissima di componimento poetico, che ispirerà molti suoi dipinti. Il bianco pastoso del lungo pannello attraversato dalla sinuosa onda nera dai contorni polverosi, impalpabili, spezza in due il piano, e una goccia color sangue in alto a destra accresce la sensazione di profondità.

A suggellare che anche con pochissimo si può dire molto, in un gioco di equilibri a cui aspirare per progredire senza mai rinchiudersi nel già acquisito. Anche nel più nascosto filo d’erba o nel sasso abbandonato si cela la bellezza. “Ad eccezione dei giapponesi e dei primitivi, nessuno si interessa a queste cose meravigliose. Quello che mi attira è soprattutto la calligrafia degli alberi, ramo per ramo, foglia a foglia, filo d’erba per filo d’erba”.

Questo è l’ideale di armonia per Mirò, qui è rinchiusa la sua grandezza, capace di riportare il linguaggio dell’arte a volare alto, a captare l’innocente silenzio delle cose e sottrarle al caos e al rumore del Nulla. L’emozione iniziale è catturata e poi rielaborata in un lento procedere per gradi con tempi di posa e di riflessione lenta, fino a prendere forme definite. Un procedimento che Mirò stesso assimilò al meticoloso lavoro  di cura di un giardiniere  intento alle sue piante, nell’attesa di vederle sbocciare.

La quiete della leggerezza, espressa con sfumature cromatiche calibrate, si infiamma di colori forti, istintivi, con poche modulazioni, nei quadri graffianti degli anni Settanta.
Emozioni forti suscitano i cieli attraversati da lune nere o stelle comete verdi, figure femminili primitive, quasi minacciose nelle loro forme geometriche primarie, paesaggi sommersi da una pioggia di stelle cadenti. Uccelli neri che occupano il centro della scena e vivono di vita propria con le grandi ali a bilanciare la superficie. “E’ sempre una lotta fra me e la tela, ma io sono un combattivo”.

La “femme dans la rue” del ’73 ha il corpo scuro, solido al cui centro batte un irregolare cuore rosso a trapezio, e arti lunghi e sottili che sembrano lanciarsi in una danza ritmica propiziatoria, stabilendo un legame inscindibile tra vita e sessualità, come energia creativa. Gli “Oiseaux” dello stesso anno sono in equilibrio sulle lunghe zampette: uccelli inafferrabili e liberi, ma concreti, perché poggiano tra le macchie di colore sparse, simboli di radici: per non dimenticare che “ogni giorno bisogna mettere radici”. L’occhio centrale, una goccia rossa fra il nero delle piume, osserva inquieto, penetrante quasi a svuotare la mente da tutte le cose superflue.

Un quadro dopo l’altro si alternano lo splendore della materia e le scintille del pensiero. L’artista catalano costruisce un ponte ideale per far incontrare la vita con le idee, le piccole cose comuni e quelle più “nobili”, nel tentativo di dare un’armonia più giusta al mondo che lo circonda. E’ nella quiete silenziosa , illuminata dai caldi colori mediterranei del suo Atelier a Son Abrines (Palma di Maiorca), che Mirò ritrova intatte le infinite scintille rigeneratrici della natura per tradurle in dinamiche espressioni dell’immaginario artistico.

La luce e la poesia si incontrano nelle tele con la materialità delle cose, in una reciprocità di accostamenti dalle molteplici gamme di significati, mutevoli e imprevedibili. Nella suggestiva articolazione della mostra, un angolino è dedicato alla ricostruzione virtuale del suo studio: ”un luogo ampio dove andare oltre la pittura da cavalletto, che a mio parere si propone un obiettivo angusto, e avvicinarmi attraverso di essa alle masse umane, a cui non ho mai smesso di pensare”.

L’importanza che per lui avevano l’arte popolare (“più una cosa è locale più è universale”) e quella primitiva si coglie a fondo nell’esposizione romana, come anche il suo spirito ribelle sempre in fermento, insieme ad un impegno etico, mai disatteso: “Quando avevamo la museruola, la poesia e la pittura hanno sostenuto la vitalità del nostro paese”, è la sua attualissima conclusione.


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