Il male assoluto dell’anti-politica

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di Roberto Bertoni
Giorgio Napolitano lo ha detto chiaramente: basta con i populisti, i demagoghi e i tribuni improvvisati che cavalcano le attuali, immense difficoltà del Paese. Poi, però, ha rivolto un messaggio forte anche alla politica: deve rinnovarsi, deve cambiare, deve tornare ad essere limpida e trasparente, altrimenti i ciarlatani di cui sopra avrebbero buon gioco e, a quel punto, il futuro dell’Italia sarebbe seriamente compromesso.

La grandezza del Presidente non sta solo nell’efficacia delle parole che ha scelto per ribadire i vari concetti, ma soprattutto nella decisione di farlo il 25 aprile, a Pesaro, durante il discorso in cui ha reso omaggio ai valori della Resistenza e della Liberazione dal nazi-fascismo: gli stessi sui quali si fonda la nostra Costituzione e, è bene ricordarlo, le nostre istituzioni, a cominciare dal Parlamento.
Dei tanti passaggi del Capo dello Stato, ce n’è uno che ritengo particolarmente significativo, perché parla alle nuove generazioni con le parole di un giovane, di uno studente parmense di diciannove anni, Giacomo Ulivi, che fu condannato a morte e fucilato nella Piazza Grande di Modena il 10 novembre 1944: “Cari amici, allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica è stato il più terribile risultato di un’opera di diseducazione ventennale, che è riuscita a inchiodare in molti di noi dei pregiudizi, fondamentale quello della <<sporcizia>> della politica. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è lavoro di <<specialisti>>: lasciate fare a chi può e deve. E invece la cosa pubblica è noi stessi: dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante”.
Non a caso, uno dei motti-simbolo del fascismo era “Me ne frego”: un inno all’indifferenza, all’egoismo, al disprezzo per il bene comune, direi quasi il manifesto programmatico di un movimento la cui unica ideologia era la volontà di dominio assoluto.
E non a caso il fascismo, al pari del nazismo e di altri regimi dittatoriali sorti in quegli anni, trovò terreno fertile proprio a causa della disaffezione dei cittadini nei confronti della politica, dei partiti tradizionali e, per quanto sia atroce doverlo ammettere, del concetto stesso di democrazia.

È inutile minimizzare: sia pur con le debite differenze, il contesto attuale è molto simile a quello dei primi anni Venti, tra crisi economica dilagante, sfiducia nei confronti della classe politica, generazioni precarie e senza lavoro, disagio e malessere sociale e la grande aspirazione, comune a molti, ad essere governati dall’“uomo forte”, da “colui che ci pensa, che provvede anche per noi”.
A questo scenario desolante, purtroppo, si somma un aspetto che è figlio della mancanza di cultura e della scarsa abitudine a compiere i dovuti collegamenti tra i singoli eventi: la sottovalutazione dei fenomeni, la costante irrisione di chi prova a metterli in luce, le accuse che è costretto a subire chi semplicemente tenta di delineare dei paragoni storici, di mettere a confronto dei periodi che hanno assai più punti in comune di quanto non si pensi.
D’altronde, cos’è l’anti-politica se non una serpe che si finge amica e poi tradisce, con conseguenze pericolose e imponderabili per la stabilità del Paese?
Ciò che molti si ostinano a non capire è che questo cancro non si limita a minare i partiti o a infangare il Parlamento, avvelenando ogni discussione e ogni tentativo di dibattito con disgustose colate di qualunquismo; questo cancro è più forte, più resistente e più agguerrito di quel che io stesso avessi immaginato, pur essendo tra coloro che hanno sempre denunciato l’avanzare di questa marea montante che oggi rischia di spazzare via ciò che resta delle istituzioni repubblicane dopo quasi vent’anni di berlusconismo.
A tal proposito, qualcuno ha iniziato ad evidenziare le somiglianze tra Berlusconi e Grillo e qualcun altro ha avuto persino la sfrontatezza di asserire che, ora più che mai, il Cavaliere ha un disperato bisogno di una spruzzata di anti-politica per mantenersi a galla.

Ha scritto, ad esempio, Francesco Cundari su “l’Unità” dello scorso 25 aprile: “In fondo, la sua strategia politica è molto simile alla sua strategia processuale: cosciente di non poter vincere la partita, punta a farne rinviare lo svolgimento il più a lungo possibile. A questo scopo ha bisogno delle campagne contro i partiti e contro la politica, non di riforme. Tanto meno di riforme che tolgano munizioni a quelle campagne. Perché la supplenza dei tecnici possa prolungarsi anche oltre il 2013, la politica, tutta la politica, deve restare debole, divisa e delegittimata”.

Verrebbe da dire: era ora, visto che noi lo dicevamo inascoltati da anni; ma non è il momento di perdersi in rivendicazioni né, tanto meno, in inutili protagonismi.
È alquanto opportuno, invece, ripercorrere con dovizia di particolari la vicenda storica di Berlusconi: l’uomo che “si è fatto da solo”, l’imprenditore di successo che “scese in campo” nel 1994 elogiando Di Pietro e il Pool di Mani Pulite e condannando senza appello i vecchi partiti e il “teatrino della politica”; lo stesso che poi si alleò con Bossi al Nord e con l’MSI nel resto d’Italia per non disperdere nemmeno un voto; lo stesso che di quel “teatrino” ne è stato l’assoluto protagonista per due decenni; lo stesso che ha formato un governo in cui il ministro della Pubblica Istruzione non faceva altro che attaccare chiunque osasse parlare di politica a scuola, come se esistesse qualche legge che lo vietasse.

Ma cosa intendeva per politica il ministro Gelmini? Semplice, intendeva il suo aspetto più alto e nobile: il diritto di critica, la libertà d’espressione, la bellezza del dialogo e del confronto, anche aspro ma comunque corretto. Per questo, provava tanto fastidio di fronte ai bambini “strumentalizzati” che protestavano contro la devastazione della scuola pubblica; per questo, ogni tanto si veniva a conoscenza di qualche circolare, emessa qua, e là nella quale si redarguiva chiunque si azzardasse a parlare di politica, cioè a criticare le scelte dell’esecutivo.
E molti, per troppo tempo, di fronte a questo disastro hanno taciuto; anzi, non hanno lesinato il proprio contributo. Quante volte abbiamo letto o ascoltato le riflessioni dei soliti soloni che ci spiegavano che a scuola non si può fare politica, che parlare di politica in classe non sta bene, che certi argomenti non devono entrare negli edifici scolastici perché altrimenti si rischia di scadere nella propaganda!

Ma chi l’ha detto? Chi ha stabilito che parlare di politica significa fare propaganda in favore di questo o quel partito? In base a quali leggi, a quali provvedimenti, a quali articoli della Costituzione è stato sancito tutto ciò? E da chi poi? Dagli stessi che non hanno detto una sillaba quando il sindaco di Adro, Oscar Lancini, ha tappezzato un’intera scuola di simboli del Carroccio. Dagli stessi che non hanno mosso un dito quando qualcuno, i soliti noti, ha proposto addirittura la revisione dei testi scolastici poiché sarebbero eccessivamente sbilanciati a sinistra. Dagli stessi che per anni si sono riempiti la bocca di paroloni, primo fra tutti “meritocrazia”, accusandoci di “buonismo” (termine detestabile ed insulso) ogni volta che cercavamo di far comprendere loro che noi siamo i massimi sostenitori del merito e della valorizzazione dei talenti ma non a scapito dei più deboli o di chi è rimasto indietro.
L’anti-politica non è solo Grillo: Grillo è solo un remake dal sapore amaro, frutto degli errori e delle mancanze della cattiva politica.
La vera anti-politica l’abbiamo già conosciuta e vista all’opera: è il progressivo, e subdolo, soffocamento della cultura, della passione civile, della volontà di battersi per un’Italia migliore; ed è, al tempo stesso, l’esaltazione del distacco, dell’individualismo e del più totale disinteresse nei confronti delle esigenze del prossimo.

Pertanto, per reagire a questo degrado morale e per rendere degnamente omaggio ad un gigante del pensiero politico moderno, in occasione del settantacinquesimo anniversario della scomparsa, ci tengo a riportare una riflessione di Antonio Gramsci che è tuttora attuale: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”.
Roberto Bertoni


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