L’egemonia qualitativa e quantitativa dei canali televisivi come strumento di comunicazione di quel che accade rispetto a quel che scrivono i quotidiani (l’80% degli italiani si informa con la tv, soltanto il 20% con i giornali, secondo le ultime statistiche europee) ha una conseguenza negativa e quasi catastrofica che nessuno finora sembra aver notato. Mancano – sulle elezioni amministrative dei giorni scorsi – giudizi seri e articolati di quel che ha significato il test elettorale che è stato di sicuro parziale ma molto significativo per il momento politico, in cui è avvenuto come per i risultati che ne sono scaturiti.
Il campione è importante perché ha riguardato città e paesi collocati al Nord, al Sud e al Centro della penisola.
Finora ha prevalso in tutte le sedi comunicative, cioè tv e giornali, un giudizio schematico e non proiettato, come pure dovrebbe essere, sulle scadenze future che si preparano a livello politico e amministrativo. Ormai è certo che, entro un anno, avremo elezioni politiche generali in grado di decidere per alcuni anni il destino del governo del paese come di quello della nomina o elezione delle massime cariche dello Stato e degli organi costituzionali di maggiore importanza.
Ma il giudizio con il quale abbiamo a che fare resta, per certi aspetti, ancora contraddittorio: l’unico partito politico che resiste sul piano nazionale, sia pure con indubbie perdite percentuali, è il Partito Democratico ma ha bisogno, per poter vincere con un effettivo distacco, (come è avvenuto a Genova con Marco Doria o a Milano con Pisapia un anno fa) di apporti esterni di piccoli partiti o forze della società civile che sono disponibili ad entrare in coalizione con il PD.
Opposto sembra essere il destino dei partiti tradizionali della destra italiana come quella del Popolo della Libertà e della Lega Nord che sono state accomunate nel giudizio negativo sul governo di Berlusconi dei primi quattro anni di questa legislatura e hanno conseguito risultati – per così dire ridicoli – rispetto alla forza che pure hanno avuto nelle ultime elezioni politiche dell’aprile 2008, passando dal cinquanta per cento o più a percentuali del venti per cento, o ancora meno.
La novità che ha attratto l’attenzione degli osservatori nelle prime ore è stato soprattutto il successo del M5 (a Parma ha segnato addirittura la vittoria del candidato grillino Pizzarotti su quello del PD e della maggior parte del centro sinistra Bernazzoli che nel primo turno lo aveva di gran lunga surclassato) che ha comunque significato in 101 comuni dove Grillo è riuscito a mettere in piedi una lista completa, la crescita molto rapida di un movimento che ha portato, tramite un attore molto popolare e attivo come è il comico genovese, pezzi sparsi della società civile che non avevano mai fatto politica alla ribalta dell’attenzione mediatica e, in qualche caso, ad occupare posti di vertice nei comuni e nelle città coinvolte nelle elezioni amministrative.
Eppure si tratta di un movimento che non ha avuto né il tempo né le strutture stabili necessarie per mettere in piedi una traccia coerente di programma in grado di disegnare il ritratto di un paese che ha problemi forti e da molto tempo non riesce ad affrontarli e, tanto meno, a risolverli.
Grillo, un comico ricco di risorse e di fantasia politica dissacrante, fonda la sua grande popolarità sul deserto creato a sinistra da più di vent’anni dalla fine del partito comunista italiano di Berlinguer e, a destra, dal partito liquido e fondato sul Cavaliere che è stato prima Forza Italia (a cui molti oggi vorrebbero ritornare) e quindi il Popolo della Libertà.
Perché il giudizio non resti schematico e, per molti aspetti, contraddittorio – come è apparso nelle formulazioni dei primi giorni – è necessario compiere due operazioni fondamentali : la prima è chiedersi perché tutto questo sia avvenuto; la seconda, quali conseguenze un simile risultato potrà avere nelle prossime elezioni, e in particolare in quelle politiche di cui possiamo prevedere nei prossimi mesi – pur non sapendo ancora quando – che dovranno aver luogo, al massimo, nei primi mesi del 2013.
Al primo interrogativo è il caso di rispondere: che c’è una parte, oggi tendenzialmente maggioritaria, degli elettori italiani che (malgrado le gravi malattie della nostra informazione quotidiana e periodica, affetta da squilibri e oscurità molto più gravi di quelle dei più avanzati paesi occidentali come Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti, pur con qualche piccola eccezione contraria) ha capito che la destra, senza Berlusconi né Bossi, non potrà vincere le prossime elezioni e che difficilmente potrà trovare un leader all’altezza della sfida prevedibile nei prossimi mesi.
Di qui lo sfaldamento dei due maggiori partiti della destra che hanno formato e guidato la galassia populista che, con qualche intervallo, ha governato l’Italia negli ultimi vent’anni.
Al secondo interrogativo occorre precisare che il Partito Democratico è, e resterà, la base della coazione destinata a governare il paese nei prossimi anni ma dovrà cooptare le donne e gli uomini che si sono battuti in questi anni per la difesa della costituzione repubblicana e dei principi democratici violati dal populismo trionfante e rischiano ogni giorno di ritornare di attualità per l’egemonia culturale che hanno avuto tramite il berlusconismo e il leghismo che la sinistra ha subito e non è riuscita, fino a pochi mesi fa, a sconfiggere e a sostituire né nei mass media né nelle altre sedi mediatiche del nostro paese.
Prendere atto di una simile situazione che ha caratterizzato l’Italia nell’ultimo ventennio populista e ripartire da questo giudizio per indicare, attraverso un dibattito politico e culturale (ma in quali sede non è facile indicare di fronte allo stato miserando dei mezzi di comunicazione, televisivi e non, che privilegiano i pareri dei leader politici più influenti, dell’una o dell’altra parte non trascurando personaggi imbarazzanti come il “poeta” Sandro Bondi o la Santanchè o dei vecchi e nuovi poteri economico-finanziari dominanti), quali dovranno essere le basi per la ricostruzione nazionale.
Per farlo è urgente introdurre, nelle forze politiche di centro-sinistra a cominciare dalla maggiore, il Partito democratico, regole trasparenti comela Costituzionee le tradizioni dell’Antifascismo e della Resistenza richiedono, è la prima operazione da condurre nei prossimi mesi del 2012, e nei primi del 2013, per accantonare il populismo di ogni colore che emerge in tutte le parti dello schieramento politico e costituisce la scorciatoia – facile e personalistica – che si è affermata in Italia dopo la vittoria del 1994 da parte di Silvio Berlusconi.
O si perseguirà questa strada, che è l’unica fondata sulla nostra storia e sui filoni centrali della democrazia repubblicana, riuscendo a superare la difficile prova dei fascismi europei come dei totalitarismi orientali, o si andrà incontro invece a nuove, pericolose avventure.
Già perché il fenomeno centrale dell’ultimo ventennio è stata in Italia la vittoria del populismo berlusconiano, che ha contaminato anche il centro-sinistra, di cui pure fanno parte, a tutti gli effetti, partiti molto personalistici come l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e Sinistra Ecologia e Libertà di Niki Vendola che pure hanno scelto da tempo la collocazione – sia pure a volte litigiosa – nella coalizione che fa capo al Partito Democratico.