La scorsa settimana ho dato conto della pubblicazione del nuovo numero della rivista Multiverso della casa editrice universitaria di Udine, Forum, dedicato al tema della “misura”. Ho scritto che molti autori – chi partendo da ragioni ecologiche, chi da motivazioni sociali, chi da constatazioni storiche… si sarebbero ritrovati d’accordo con la massima di Sofocle nell’Edipo: “Chi vive oltre il limite giusto e la misura perde la mente ed è in palese stoltezza”. Ma la questione decisiva e politicamente delicata è la seguente: chi decide qual è “il limite giusto”? Qual è l’autorità che ha il potere di stabilire la misura della sufficienza, di ciò che deve bastare a ciascuno e di ciò che supera la soglia del consentito?
Il sistema di mercato – come sappiamo – risolve la questione in modo stupefacentemente semplice: il limite è dato dalla solvibilità del compratore. E’ consentito produrre tutto ciò che si può consumare, ovvero non vi è alcun “limite esterno” al mercato stesso; sia pure fisico, biologico, ambientale. Esaurito un terreno fertile, una miniera, un materiale… si passa a sfruttarne un altro. Il compito di superare ogni limite naturale è affidato alla tecnoscienza, che secondo la teoria sviluppista (una vera e propria fede) sarà sempre in grado di trovare una soluzione per incrementare la produzione di nuove merci e appagare ogni tipo di umana hýbris.
Peccato che non da oggi (dal rapporto del Club di Roma dei primi anni ’70, almeno, su, su fino alle ultime osservazioni degli scienziati dell’Ipcc sui cambiamenti climatici) sappiamo bene che questa teoria non regge. Le scienze della vita ci dicono in modo inconfutabile che la logica mercantile e il meccanismo dell’accumulazione capitalistica stanno semplicemente distruggendo il pianeta. I prelievi di materiali e di energie non rinnovabili e le emissioni inquinanti non metabolizzabili stanno depauperando la Terra ad un ritmo di estinzione delle specie viventi fin qui mai raggiunto (e misurato). A dispetto delle enormi capacità di conoscenza e di previsione raggiunte dalla comunità scientifica, le scelte politiche messe in atto dalla società umana sono incredibilmente miopi e irresponsabili.
Da qui la notissima affermazione di Kenneth Boulding (tra i fondatori della bioeconomia, negli anni ’60): “Chiunque creda che una crescita esponenziale possa durare sempre, in un mondo finito, è o un folle o un economista”. Dove per “folle” si deve leggere: uomo politico di governo. Come immaginare, allora, una via di rientro nei limiti della sostenibilità bio-geo-chimica delle attività antropiche? Quale deve essere il governo di una “good-enough society”?
A fronte delle pessime prove storicamente dimostrate dai governi nazionali e dai fallimenti degli innumerevoli tentativi di istituire una governace globale (pensiamo ai programmi intentati dalle agenzie dell’Onu, alla messe di Dichiarazioni sull’ambiente, alle Convenzioni tra cui quelle sulla biodiversità e sul cambiamento climatico, ai Protocolli intergovernativi tra cui quello di Kioto, e alle Agende operative), spesso si sente invocare la necessità di una “superiore autorità” capace di dettare regole e imporre limiti dall’alto. Secondo costoro, nessun governo riuscirà mai ad ottenere comportamenti e stili di vita più sobri, razionali e meno dispendiosi con il consenso delle popolazioni e con le buone maniere .
Da qui l’invocazione di una “dittatura benevola “ (già vista come una necessità da Hans Jonas), di un “dispotismo tecnocratico illuminato” ( Hubert Védrine, citato da Serge Latouche in: Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati e Boringhieri, 2012) di un governo guidato da ecocrazie autoritarie, espertocrazie post-democratiche, ecc., ecc. Esiste quindi una visione autoritaria della ecologia – o una via ecologica all’autoritarismo – che fonda il suo dire su una visione pessimistica del genere umano. In altri termini, questa corrente di pensiero ritiene che le popolazioni non accetterebbero mai delle limitazioni al loro desiderio di crescita dei redditi e dei consumi. Molti anni fa Dario Paccino (I colonnelli verdi , Antonio Pellicani Editore, 1990) chiamava costoro “ecofascisti”, cioè, quelli che non si curano delle reali condizioni sociali in cui vivono le persone.
Sono invece persuaso che vi è la possibilità di percorrere la strada della decrescita verso la sostenibilità in forme e modi democratici. Ciò può verificarsi, però, solo se si passa attraverso la presa di coscienza di ciascun individuo per diventare, via, via, un movimento di popolo. La decrescita si sostanza in innumerevoli micropratiche di cittadinanza attiva che quotidianamente sperimenta modi di produzione sociale, senza fini di lucro, di beni e servizi utili per se e per gli altri. La società della decrescita, che ha come obiettivo quello di raggiungere un equilibrio con la biosfera, è necessariamente una società autogovernata (Cornelius Castoriadis, La rivoluzione democratica, 1990) con un più alto – non più basso – tasso di democrazia.
L’unica “autorità”, quindi, che può decidere quanto prelevare, quanto consumare, quanto restituire all’ambiente naturale esterno è la comunità dei produttori e dei consumatori che abitano i loro territori, ne conoscono le potenzialità e ne rispettano i limiti. Solo seguendo metodi e procedure democratiche, solo instaurando forme di autogoverno e autogestione comunitaria sarà possibile iniziare il cammino della decrescita. Decrescita ed equità sono due facce della stessa medaglia: solo la capacità di condividere tutto ciò di cui disponiamo ci fa imparare a produrre ciò di cui abbiamo bisogno con ciò che abbiamo a disposizione, senza sottrarlo ad altri, senza danneggiare altri e senza generare iniquità. Solo il riconoscimento di vincoli etici intra e infraspecifici e intergenerazionali ci permette di autolimitare i nostri potenzialmente sconfinati desideri. Equità sociale e conversione ecologica del sistema economico sono indissolubilmente legati.
In una tale società, allora, sarà persino privo di senso porre il problema di quale deve essere e come poter calcolare la “misura giusta”, equilibrata, né insufficiente, né smisurata. La moderazione e la temperanza, il rispetto dei modi e dei tempi di riproduzione dei cicli della vita verranno introiettati “automaticamente” nei comportamenti abituali. E’ solo una visione dei rapporti sociali individualista, utilitaristica e competitiva che ha generato una rincorsa emulativa al possesso esclusivo. E’ solo una cultura predatoria che, pensando la natura come “avara matrigna”, ha portato ad uccidere la “madre-nutrice”. E’ solo l’economia di mercato capitalista che ha inventato il concetto di “scarsità” e né ha fatto il cardine attorno cui ruota tutta l’economia politica e la società contemporanea.
(Dolo, 13 marzo 2012)