La primavera porta sempre meno rondini (gli esperti si domandano se dipende dagli inquinamenti, dalla modifica della circolazione dell’aria, dal clima, o da chissà cos’altro) ma aumentano le fiere e le feste ispirate all’ambiente, al commercio equo, alla economia solidale. Non penso solo agli appuntamenti oramai fissi di Fai la cosa giusta a Milano e a Terra Futura a Firenze, che, pur con le loro diversità d’impostazione, danno la misura della consistenza di un settore dell’economia in espansione: il biologico e l’energia rinnovabile sembrano gli unici comparti dell’economia italiana a non conoscere la crisi (chi glielo va a dire a Monti?). Penso alle piazze di molti comuni che per qualche giorno si sono riempite di banchi e banchetti di frutta e verdura “a kilometro zero”, di marmellate, conserve, birre prodotte artigianalemnte, di cesti intrecciati di vimini, di tessuti di canapa e calze di cotone, di monili e oggetti di uso comune costruiti da artigiani locali, di spezie, caffè ed altri “prodotti coloniali” associati a progetti di cooperazione internazionale con i tanti Sud del mondo, di offerte di vacanze “mari e monti” a zero impatto ambientale, ma a grande “valore aggiunto” relazionale…
Il tutto intervallato da altri tavoli e gazebi allestiti per mostrare le iniziative, i progetti, i sogni di gruppi di cittadini, giovani e non, che cercano soci e finanziamenti per avviare gruppi di acquisto (anche di terreni per fare orti e agricoltura condivisa), banche del tempo, officine di riciclo di computer, edifici in cohousing , uffici in coworking, corsi di autoistallazione di pannelli solari, viaggi in bicicletta, scambi di free software, monete locali più o meno alternative all’Euro (tanto per “anticipare” la Grecia!), molto altro ancora. E poi incontri per prendere coscienza dell’importanza di ciò che si fa e per tentare di trasmettere al mondo esterno il messaggio che “Un’altra economia è già qui”, come titola Terra Nuova, “Il mensile per l’ecologia della mente e la decrescita felice”, in edicola questo mese.
Solo per dare un’idea di quante diffuse siano queste iniziative voglio citare gli appuntamenti a cui ho potuto partecipare.
A Pioppe di Salvaro tre giornate per “Costruire la Rete di Economia Solidale della Valle del Reno”, a Lucca per iniziativa di un liceo scientifico: “Prove generali per una società solidale”, a Pisa Festa dell’economia solidale in Piazza Santa Caterina, a Oderzo la Piazza del baratto nel contesto di tre giornate all’insegna di “Vivere con stile”, a Pinerolo dibattito sull’Economia del noi nelle giornate di “Direfarecosolidale”, a Ponte nelle Alpi il gruppo di Coltivare Condividendo ha promosso un incontro sul: “La crisi: dire, fare, ricominciare”, a Cavatone una giornata nella cascina della cooperativa Iris: “I beni comuni per un’economia di comunità”. Prossimamente l’apertura di una “osteria” ad Aires, la città dell’altra economia di Mestre.
Si tratta di contenitori di iniziative spesso molto diverse per scopo, ragione sociale, finalità. Difficile pensare ad esse come ad un comparto economico compatto. Nonostante i generosi tentativi di costituire dei “tavoli” tra le associazioni e le reti rimane un grande frazionamento. Varia anche il loro contenuto “antisistemico”. Alcune si confrontano con il mercato alla pari, altre ne rifuggono. Ma vi sono comuni aspirazioni di fondo: mettere al centro la soddisfazione personale per chi ci lavora; l’attenzione verso gli impatti ambientali delle proprie attività; la ricerca di un rapporto umano “faccia a faccia” con i “clienti”, meglio se si riescono a coinvolgere fin dalla fase dell’ideazione della produzione e poi, via, via, nel suo realizzarsi, diventando così “coproduttori”. In generale, la necessaria e difficile ricerca del guadagno è posta come mezzo indispensabile alla sopravvivenza dell’attività, non come la ragione principale d’impresa. E questo è l’atteggiamento che distingue nettamente il settore equo e solidale dal commerciale convenzionale.
Alberto Castagnola, economista e studioso del settore, chiama queste imprese “embrioni di altra economia”, Giulio Marcon, altro esperto del settore, le aveva definite “utopie del buon fare”, Roberta Carlini, giornalista e saggista, “l’economia del noi”. Altri economisti del mondo cattolico, Zamagni, Bruni, la chiamano “economia civile” o “morale”. Difficile dire se tutte queste esperienze sapranno relazionarsi tra loro ed ottenere uno spazio d’azione a largo raggio, ricacciando indietro la sfera dell’economia capitalistica, sempre più pervasiva e invadente. Certo è già ora evidente la intrinseca politicità che è contenuta nelle esperienze di aggregazione che nascono con le attività economiche alternative.
Esse infatti operano una critica concreta ed indicano una via di uscita dalla economia della crescita fine a se stessa, della produttività indifferente tanto alle condizioni di lavoro quanto ai valori d’uso delle merci, del marketing consumistico, della ricerca del profitto per l’accumulazione dei capitali finanziari. Non solo, l’economia solidale genera nel suo farsi comportamenti cooperativi e forma comunità relazionate di produttori e di consumatori (le reti e i distretti). Non sarà un caso che attorno a vertenze territoriali come quelle della Val di Susa siano sorte esperienze di economia partecipata tra imprenditori come “Etinomia”, 160 imprenditori che hanno creato “un marchio etico di servizi di alta qualità che cercherà di proporre un’alternativa morale al tradizionale modello di sviluppo: velocità non è progresso”.