Il dramma della violenza omicida sulle donne che si consuma ormai quotidianamente dovrebbe imporci qualche riflessione, difficile e dolorosa, anche come operatori della comunicazione.
Da più di due decenni ormai siamo in presenza di una televisione che, per la sua gran parte ovviamente, non per la sua totalità, diffonde un messaggio nefasto di donna oggetto quale neppure negli anni ’50 era stato veicolato. L’oblio della memoeria delle battagliae (vinte) delle donne è stato poco a poco assoluto, volutamente totale.
Non so se ci sia stata davvero una ideologia post femminista, ma certamente la TV ha progressivamente smantellato ogni traguardo raggiunto negli anni ’70 e ha ribaltato la situazione giorno dopo giorno, confondendo le idee a noi stesse, rendendoci timide al punto di accettare tutto piuttosto passivamente, fino al giorno liberatorio del 13 febbraio 2011, grazie al movimento “Se non ora quando”.
Se la donna è solo fisicità, se la donna è solo incapacità di fare qualsiasi cosa se non mostrare il proprio corpo, come non comprendere che il senso prorietario dell’uomo sulla donna, retaggio plurimillenario, non sarebbe tornato a prendere il sopravvento soprattutto nelle aree sociali meno istruite, dove ci sono non soltanto minori mezzi economici (non è questo il discrimine), ma meno strumenti di interpretazion e di apprendimento.
Mi tradisci, ti uccido, mi lasci ti uccido, e un tempo era un reato minore, chiamato delitto d’onore.
Avevamo proprio creduto che tutto questo fosse stato sepolto dalla storia.
Abbiamo accettato donne ministro senza alcun curriculum se non quello del corpo, in silenzio. Abbiamo fatto finta di credere che nulla avrebbe cambiato le cose, che i diritti non sarebbero stati rimessi in discussione. E invece viene rimesso in discussione perfino il diritto di vivere in libertà, facendo le proprie scelte.
Aderiamo in massa all’appello di Se non ora quando e torniamo a occupare le piazze le strade, tutte insieme. Come trenta anni fa, insieme, in tante, ce la faremo
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