Correva l’anno 1095 quando papa Urbano II ebbe a dire ai padri conciliari riuniti a Clermont: “Questa (Europa) rinserrata dal mare e da alte montagne costringe in ristrettezze la vostra troppo numerosa popolazione: essa è priva di ricchezze e fornisce a stento di che sopravvivere a coloro che coltivano. È per questo che fate a gara nel dilaniarvi e nel divorarvi a vicenda, che vi combattete e massacrate: placate dunque il vostro odio, e prendete la via del Santo Sepolcro.”
Forse è stato anche in ossequio a questo messaggio che il presidente Roosevelt, subito dopo la conferenza di Yalta, prese la strada che lo avrebbe condotto al largo delle sabbiose coste saudite, per stringere un patto di ferro con Sua Altezza Ibn Saud. Da allora la dinastia saudita, con l’avallo ideologico degli ulema wahhabiti, ha sostenuto e diffuso una visione economica, quella per cui la rendita petrolifera al netto degli sperperi, stimata nel 2009 in 1282 trilioni di dollari, non viene reinvestita, ma depositata nelle banche statunitensi.
Si spiega soprattutto così un altro dato: il 33% degli arabi (41% degli egiziani) vive sotto la soglia di povertà, che per convenzione internazionale si colloca ai due dollari giornalieri di reddito, e con due terzi delle terre coltivabili in stato d’abbandono.
Come non sorprendersi che tra i parametri di valutazione dell’imminente voto egiziano quello dell’offerta economica dei vari programmi elettorali e delle condizioni economiche della popolazione figuri tra i meno citati? No, l’unico (o quasi) parametro che rimane è quello religioso, e così l’interrogativo è sempre lo stesso, “l’Islam è compatibile con la democrazia?” Eppure la storia dei governi e delle forze politiche laiche arabe è drammatica tanto quanto quella delle forze islamiche, ma la rimozione del parametro economico aiuta a rimuovere due evidenze: 1) le cause del disastro sono interconnesse tra “noi” e “loro”,
2) sono stati i totalitarismi più che la religione ad aver deturpato le società, e lo stesso “rifugio nell’Islam” è stato indotto dall’assenza di libertà.
Non ci sarà un’ossessione islamofoba dietro quegli osservatori che, sfidando le stesse notizie, hanno ritenuto probabile, per l’oggi ma in caso di astuzie per il domani, un patto tra Fratelli Musulmani e salafiti, perché entrambi islamisti? Chi mette tutti i leader politici di orientamento religioso nello stesso calderone, forse non rendendosene conto, arriva a collegare Abdel Moneim Ash-Shahar, del partito salafita egiziano an-Nour, secondo il quale il premio Nobel per la letteratura Mahfuz scrivendo i suoi romanzi ha incitato alla prostituzione, con il leader dell’Ennahda tunisino, Rashid Gannuchi, che prima del voto ha voluto incontrare il direttore della borsa di Tunisi, confermare la sua adesione all’economia di mercato e chiedere agli operatori stranieri di restare nel Paese. ”Le nostre diversità sono il prodotto di diverse comprensioni del Corano. Quella dei salafiti è una lettura povera, prendono una frase e ne fanno derivare una visione del mondo”, ha dichiarato un esponente dei Fratelli Musulmani commentando il programma dei salafiti.
Che il pensiero si sia impoverito in un paese come l’Egitto, dove è analfabeta il 33,6% della popolazione, le aule delle scuole pubbliche ospitano mediamente 60 alunni, i benestanti spendono l’1,6% del Pil in lezioni private e le scuole private (dalle rette di iscrizione altissime) sono 5118, sorprende poco. Sorprende di più che il disastro economico e il conseguente abisso educativo non siano un parametro valutativo quando si parla di Islam.
La malattia deve essere ontologica?
Forse l’esempio più lampante della distorsione interpretativa lo offre però la Turchia di Erdogan, indicata come “il modello per la primavera”. Già, ma perché la Turchia è un modello? Sorvolando sul fatto che fino all’inizio della primavera araba molti di quelli che oggi parlano della Turchia come modello la vedevano prossima ad un asse fondamentalista con l’Iran, la Turchia viene indicata come modello senza indicare il vero motivo per cui lo è: la costruzione di ceti medi islamici. Questi ceti medi islamici all’epoca dei “laicissimi” generali non esistevano, poi il crollo dell’impero sovietico ha offerto ai piccoli commercianti anatolici la possibilità di andare a fare affari nei paesi turcofoni appena usciti dal blocco sovietico. È stata quella opportunità, sostenuta dalla confraternita islamica di Fetullah Gulham, a creare le “tigri anatoliche”, che, divenute ceto medio, mandati i loro figli a studiare in ottimi college stranieri, non si sono più riconosciute nell’Islam fondamentalista di Erbakan, creando le condizioni per la nascita dell’AKP, il partito di Erdogan, che oggi da leader di un governo islamicamente orientato può indicare la via della separazione tra Stato e religione perché unisce Islam e ceti medi, Islam e crescita economica. Il modello turco dunque è lo smantellamento del modello saudita.
Più che un rompicapo coranico i recenti voti di Tunisia ed Egitto pongono un’urgenza economica: quella di investimenti produttivi per creare e rafforzare i ceti medi. La contrapposizione tra laici e religiosi invece appare pretestuosa, “ideologica”, anche in considerazione del tragico fallimento dei sistemi laici; dal nasserismo, finito in militarismo, al baathismo, dimostratosi fascismo feroce sia in Iraq sia in Siria, al gheddafismo, semplice dispotismo tribale. Diversi in molti tratti, i regimi arabi, religiosi e laici, hanno costruito Stati senza diritti di cittadinanza e senza ceti medi: forse è per questo che la parola-chiave che li accomuna è wasta, che viene dalla radice w-s-T, cioè “medio”: wasta è l’intermediario. Non è difficile capire di quale intermediazione si tratti: un’inchiesta svolta anni fa all’Arab Archive Institute di Amman consentì di apprendere che dopo un colloquio tra il primo ministro giordano e il direttore dell’AAI, durante il quale il premier sollecitò qualche assunzione tra i suoi, un autobus si presentò ai cancelli dell’AAI, con a bordo una ventina di concittadini del premier.
C’è tutto questo dietro “la primavera” araba e in assenza di una politica economica orientata a creare i ceti medi, per tornare a Urbano II, la rivolta delle piazze si potrebbe fermare a Renart il Deforme, che dopo il fallimento delle Crociate individuò l’ingiustizia nei ricchi e potenti, ma fermandosi all’odio: “mi piacerebbe strangolare i nobili e i preti dal primo all’ultimo.”
*tratto da Il mondo di Annibale