Dopo vent’anni dal Earth Summit dal 1992, quaranta dal primo vertice di Stoccolma dell’Onu, dieci da quello di Johannesburg, il prossimo giugno, a Rio de Janeiro si riuniranno di nuovo al capezzale della Terra i rappresentanti dell’umanità: quelli ufficiali, o, per meglio dire, ciò che è rimasto dei governi delle nazioni e delle agenzie dell’Onu; quelli che operano nell’ombra, ma che sono sempre più potenti, delle imprese multinazionali che con le loro decisioni determinano le modalità reali di prelievo e di utilizzazione delle risorse naturali; infine quelli rumorosi della moltitudine irrequieta formata dalle organizzazioni non governative, dalle associazioni ambientaliste, dai movimenti dell’agricoltura contadina, dalle popolazioni indigene e dagli “indignados” che daranno vita a varicontro-vertici e all’incontro dei popoli per la giustizia ambientale e sociale, in Italia, aggregati nella rete Rigas (www.reteambientalesociale.org).
Da qui a giugno saremo sommersi da un mare di retorica. I documenti governativi ripeteranno stancamente le formule magiche dello “sviluppo sostenibile”, dell’integrazione tra economia e ambiente, dell’eradicazione della povertà tramite la diffusione della crescita economica, del “pieno sviluppo umano” e della “protezione della vita che supporta la nostra casa comune, il nostro pianetacondiviso” (dal documento preparatorio). Insomma, la riproposizione senza vergogna degli obietti già contenuti in un lunghissimo elenco di principi, dichiarazioni, protocolli, agende, programmi e azioni solennemente sottoscritti nei decenni passati e invariabilmente disattesi. Di nuovo verranno ricordati i disastri ambientali in corso: cambiamenti climatici; perdita di biodiversità e della forestazione; desertificazione e perdita di fertilità del suolo; abbandono delle montagne; inquinamenti chimici e da rifiuti; surriscaldamento, inquinamento, acidificazione degli oceani, e così via. Da qui la perdita per centinaia di milioni di donne e uomini della sicurezza alimentare,dell’accesso all’acqua e all’energia e del loro forzato inurbamento nelle periferie delle megalopoli. Di nuovo scienziati onesti evidenzieranno che i processi produttivi industriali in atto sono incompatibili con la preservazione dei cicli riproduttivi naturali. Di nuovo economisti obiettivi dimostreranno che nel lungo termine i costi non desiderati del sistema supereranno i benefici economici immediati. Di nuovo politici di buona volontà invocheranno necessarie inversioni di rotta per evitare nuove catastrofi umane e naturali.
La ragione per cui non cambierà nulla, non è nuova: continuare a fare affidamento alle capacità riequilibratrici del mercato, non staccarsi dalle logiche e dai meccanismi del market system, che ècome affidare l’Avis a Dracula. La strada della riconversione bio-climatica degli apparati energetici e industriali, la de-carbonizzazione dei sistemi produttivi, la dematerializzazione dei consumi, le “smart cities”, la green tecnology, i green jobs, la green, la blue, la rainbow economy, la terza, quarta, quinta… rivoluzione industriale a venire e il “Global New Deal” verde delle campagne elettorali obaniane, sono i sentieri giusti da percorrere. Peccato che finiscano immancabilmente per scomparire dentro il bosco di rovi del sistema delle società di capitale. L’errore mortale sta nell’idea che sia possibile “incorporare i principi della sostenibilità nei modelli delle imprese e delle banche”, che sia possibile un “capitalismo secondo natura”, una “finanza etica”, persinoun’economia di mercato “dal volto umano”. La pretesa di “salvare il pianeta e di guadagnarci sopra” è davvero un eccesso di ipocrisia. Lo “sviluppo sostenibile” è un ossimoro.
C’era già scritto tutto in un bel libro di Rita Madotto, uscito da Data News l’indomani delfallimento del primo vertice di Rio: “Ecocapitalismo. L’ambiente come grande business”. “Quello che appare chiaro sin da oggi (siamo nel 1992 e si affacciano al governo degli Stati Uniti Clinton e Alan Gore. Ndr) è un uso della spesa ambientale in funzione anticiclica, un antidoto alla recessione, che nella filosofia di fondo non intacca il meccanismo principale dell’economia capitalistica”. E ancora, riprendendo James O’Connor: “Quale che sia il grado di ‘verde’ dei beni di consumo, esiste nel capitalismo una tendenza intrinseca alla crescita del consumo di merci, con tutti gli inevitabili effetti collaterali”. L’economia di mercato ha bisogno di aumentare il rendimento dei capitali investiti, di aumentare costantemente gli utili e i profitti. E questi si possono realizzare solo aumentando costantemente il volume delle merci prodotte e vendute. Il capitalismo si fonda sulla crescita, il credito, il consumo. E’ questo suo essere a renderlo strutturalmente incompatibile con la preservazione della natura e con l’equità sociale.
A questo “inconveniente” dovrebbe rispondere la green economy. Il nuovo mito si chiama “de-coupling”: sganciare l’aumento del Pil dall’impiego crescente di flussi di energia e di materia nei cicli produttivi; dematerializzare la produzione di plusvalore. La Germania, ad esempio, ha un piano energetico che prevede la de-carbonizzazione delle emissioni in quaranta anni. Peccato che i tedeschi conteggino come se fossero loro anche il sole catturato negli impianti del Sahara(Desertec) e l’olio di palma importato dalle Filippine. Mentre non conteggiano né il carbonio, né il lavoro schiavo contenuto nelle merci prodotte in Cina, in India, in Turchia… ma consumate in Germania. In un contesto di libero mercato, le nuove tecnologie apportano un indubbio vantaggio competitivo per chi le possiede, ma non all’ambiente. Così come è successo per il mercato dei permessi di inquinamento.
Gli unici modelli economici realmente sostenibili sono quelli “not for maney”, quelli che riescono a soddisfare i bisogni facendo affidamento solo a ciò che si ha a disposizione (bioregioni, cicli corti, riciclo integrale, zero emissioni e rifiuti, ), stando attenti a non depauperare risorse non rinnovabili e a usare lavoro altrui non equamente remunerato. Ciò che manca non è la green economy, ma unasocietà ecologica.