Di Fernando Amaral
E’ bufera sul cardinale Albert Malcolm Ranjith, Arcivescovo metropolita di Colombo e presidente della Conferenza Episcopale dello Sri Lanka. L’indiscusso leader della chiesa singalese è al centro di una contestazione di massa, anche se (per ora) non troppo manifesta, da parte di clero, religiosi, laici e perfino alcuni vescovi srilankesi. Motivo della protesta: il suo appoggio al presidente Mahinda Rajapaksa, ex generale che, quanto a trasparenza, rispetto dei diritti umani, integrità, non è certo “uno stinco di santo”. La questione cruciale è la gestione della fase “post guerra civile”. Molti cattolici firmano e fanno circolare una petizione (approvata anche dal vescovo di Mannar) per sostenere le raccomandazioni formulate dalla “Commissione speciale per la riconciliazione”, in netta contrapposizione con le parole di Ranjhit. La fronda contro il cardinale, segretario della Congregazione vaticana per il Culto divino e i sacramenti dal 2005 al 2009, è ormai nota anche fuori dai confini del Paese.
Rajapaksa ha governato l’ultima fase della guerra civile che ha dilaniato il paese negli ultimi 30 anni (1983-2009) facendo oltre 100mila vittime, in maggioranza civili. L’esercito singalese combatteva la guerriglia tamil, che rappresentava le rivendicazioni della componente etnica minoritaria della società. I ribelli, le famose “tigri tamil”, erano bande armate, molto ben organizzate, che per anni hanno tenuto in scacco l’esercito regolare. Il resto delle comunità tamil, civili innocenti, donne e contadini, anziani e bambini hanno sofferto le pene e i disagi del lungo conflitto.
Le operazioni belliche erano in stallo, finchè Rajapaksa, nel 2009, non ha deciso di forzare la mano, ordinando ai militari di “stringere la tenaglia” attorno alle basi delle tigri, nel Nord e nell’Est dell’isola, senza curarsi delle vittime civili, che furono migliaia. Un intero popolo è stato assediato, strangolato, deportato in campi profughi molto simili a campi di prigionia, dove l’esercito, per stanare i ribelli, non ha esitato a usare abusi e torture. Il tutto nell’assoluto divieto di ingresso a osservatori, giornalisti, operatori di Ong.
Preti, religiosi e laici cattolici, cingalesi e tamil, che per decenni hanno lavorato a fianco delle comunità, con i profughi e le famiglie provate dalla guerra, hanno ricevuto prove dirette degli abusi. Naturalmente, come in ogni guerra, anche le tigri tamil hanno usato tutti mezzi per resistere, promuovendo, ad esempio, il reclutamento di bambini soldato. A due anni dalla fine del conflitto, le tragiche e dolorose verità sono venute a galla. E, nel marzo scorso, anche Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu ha approvato l’avvio di una inchiesta per appurare i crimini di guerra.
Il punto è la posizione della Chiesa cattolica in questa delicato passaggio: Ranjith, invece di assumere una posizione neutrale, o appellarsi a principi di verità, giustizia e trasparenza, è partito lancia in resta per difendere il suo buon amico Rjapaksa, deplorando perfino l’intervento dell’Onu. Ranjith fa parte del giro delle élites, e non disdegna affatto cene, meeting, conferenze stampa: la sua sovraesposizione a fianco del presidente, lascia percepire una chiesa tutt’uno col potere. Per i preti e i fedeli srilankesi, invece, l’indagine Onu è benvenuta, attesa, agognata. A loro interessano le vite spezzate, le famiglie distrutte, i civili traumatizzati, le donne stuprate. Non certo le cene di gala nei palazzi del potenti. Anche il cardinale, allora, se la chiesa è davvero “il popolo di Dio”, dovrà starli a sentire.