L’altro giorno George Clooney, da Washington, ha richiamato ancora una volta l’attenzione del mondo sui massacri in Sudan. Efficacissimo nel piegare i meccanismi dello star-system ad una causa civile di straordinaria importanza. La discussione che si è aperta sulla sincerità del suo impegno è indirizzata all’obiettivo sbagliato. Il problema non può essere Clooney, che spende la sua fama per portare luce su tragedie oscurate. Il punto siamo noi, noi dell’informazione, che abbiamo bisogno del bellissimo volto di un bravo attore e regista per soffermarci su qualche migliaio di morti. Un meccanismo imbarazzante: per i giornalisti, non per gli attori.
In Turchia non ci sono i massacri sudanesi, ma alcuni diritti sono calpestati in maniera brutale. In un Paese ai confini dell’Unione Europea, e che nell’UE ancora potrebbe entrare, la libertà di informazione è così malmessa che Reporters sans Frontieres assegna ad Ankara la posizione numero 148 nella graduatoria mondiale di 179 nazioni, persino dietro la Russia di Putin. Da qualche mese è in corso un’ondata di arresti che non si vedeva dai tempi della dittatura militare. All’incirca cento sono i giornalisti turchi in carcere (almeno la metà curdi), messi dietro le sbarre perché accusati di essere coinvolti in strategie golpiste o di supportare il terrorismo.
Per provare a rompere l’isolamento e il silenzio che avvolgono le battaglie dei colleghi turchi, la Federazione Internazionale dei Giornalisti ha lanciato una campagna di “adozione” internazionale. Chiede all’informazione di ogni Paese europeo di prendersi in carico un collega: un volto, un nome, una vicenda da raccontare all’opinione pubblica per far crescere la pressione internazionale contro il governo Erdogan ed indurlo ad aprire le porte delle celle. In Italia la Fnsi ha concordato coi giornalisti turchi di adottare due colleghi: Baha Okar (in carcere da settembre perché accusato di essere parte di un’organizzazione “rivoluzionaria” e di fiancheggiare il PKK) e Bedri Adanir (giornalista curdo, a rischio di 50 anni di carcere). Sul sito del sindacato (www.fnsi.it) trovate le loro storie, e la possibilità di sottoscrivere la petizione internazionale con la quale far sentire alla Turchia il peso della mobilitazione democratica. Lanceremo pubblicamente questa iniziativa nel corso dell’incontro in programma a Roma martedì 20 marzo, dalle ore 15, all’Hotel Bologna (una delle sedi del Senato, in via di Santa Chiara 4). Assieme a rappresentanti del sindacato internazionale ed esponenti del giornalismo turco, ci sarà il Presidente della Commissione dei Diritti Umani del Senato, Pietro Marcenaro. L’adozione è certo un gesto di solidarietà verso i colleghi in carcere in Turchia. Ma è anche un invito rivolto a noi stessi, giornalisti e cittadini europei, per scuoterci dal torpore col quale troppo spesso assistiamo alla demolizione di diritti fondamentali nei pressi di casa nostra. Sperando che l’attenzione possa accendersi stavolta senza che sia una stella dello spettacolo a farci soffermare sugli insulti alla dignità umana.