Siamo sceneggiatori, registi, artisti dell’animazione, documentaristi.
Autori. In cerca d’autore. Un autore istituzionale pronto a mettere in scena
un cambiamento. Del mondo in cui siamo chiamati a operare. Quello della
RAI e di tutti i network che utilizzano le nostre opere. Un mondo che ha
bisogno di un nuovo copione, di una nuova storia.
Di cui vorremmo essere,
se non protagonisti, almeno personaggi. Personaggi significativi. Perché
noi siamo quelli che scrivono e realizzano le storie che influenzano così
profondamente l’immaginario collettivo degli italiani. Noi che con le nostre
idee facciamo girare il volano della grande industria audiovisiva che fattura
ogni anno più di 2,2 miliardi di euro. Noi che con i nostri film e le nostre
fiction, i nostri documentari e i nostri cartoni animati, forniamo occasione
di lavoro a 250 mila persone.
Abbiamo letto giorni fa sul vostro giornale che è giunto per la
politica il momento di una scelta ineludibile: quella di considerare
finalmente la cultura come un settore strategico e trainante della nostra
economia. Bene, siamo con voi. O, si potrebbe anche dire, siete con noi,
visto che come associazioni di autori avevamo elaborato concetti simili in
alcuni nostri documenti che nel 2007 furono alla base di un’affollatissima
assemblea di tutto il mondo dell’audiovisivo al teatro Ambra Jovinelli di
Roma. Primo fra tutti, che la cultura è non solo forte elemento identitario
del nostro Paese ma anche propulsivo del suo sviluppo economico. La Rai
è uno dei luoghi decisivi di questa ipotesi e solo sviluppando al meglio la
sua natura di servizio pubblico si può dare impulso a un’industria sana e
moderna. Perché il suo obbligo ‘per legge’ a innovare, se solo fosse
rispettato, costringerebbe anche gli altri network a misurarsi sullo stesso
terreno per non perdere quote di mercato e stimolerebbe così un decisivo
miglioramento della qualità nell’intero universo della narrazione
audiovisiva.
Ma le nostre parole si sono perse nel vento, vanificate non solo dai
conflitti d’interesse del berlusconismo ma anche da infiniti altri interessi di
parte. E neanche quando è arrivata la crisi è stato possibile confrontarsi con
i vertici della Rai, né tantomeno proporre loro che la crisi stessa diventasse
l’occasione per cambiare tutti insieme un modello editoriale, creativo e
produttivo già da tempo obsoleto. L’unica strategia adottata dalla dirigenza
di viale Mazzini è stata invece quella di decidere in solitudine tagli
giganteschi alla produzione di fiction, nonostante proprio la fiction sia
trainante per ascolti e introiti pubblicitari. Negli ultimi 4 anni la sola Rai ha
ridotto di più del 40 per cento i suoi investimenti e ha perso 200 ore di
prodotto originale, che diventano 300 considerando anche Mediaset e Sky.
Cosicché l’offerta complessiva si è ridotta a meno di 50 titoli all’anno,
meno di quanti ne producessimo 15 anni fa, collocandoci agli ultimi posti
in Europa distanti di molte lunghezze da Regno Unito, Francia, Germania e
Spagna.
E dato che per ogni euro investito in racconto audiovisivo si ha un
‘ritorno’ di 2,1 euro, è facile capire quale gravissimo danno venga alle
casse dello Stato da questa scelta imprenditoriale. A questo si deve
aggiungere il danno derivato dalla delocalizzazione della produzione che
negli ultimi 4 anni ha fatto volare all’estero 100 milioni di euro senza alcun
ritorno per il nostro paese. A vantaggio di chi la Rai ha scelto una strada
così disastrosa per l’azienda e, più in generale, per l’economia italiana? Di
dirigenti che garantiscono così alla propria gestione la medaglia al merito
di ore di produzione a costi più bassi e di produttori asserviti ai broadcaster
perché la loro unica professionalità è quella di essere proni a tutti i loro
voleri.
A questo punto proprio noi, troppo spesso accusati di essere
irresponsabili e privilegiati, interessati solo ai nostri aumenti di compenso e
al nostro particulare, siamo pronti a lanciare loro il guanto di sfida sul
terreno dell’economicità degli investimenti, sulla riduzione possibile dei
costi, su un diverso utilizzo delle risorse. Perché noi che le storie le
ideiamo e le realizziamo sappiamo dove è giusto e possibile tagliare, come
è possibile sfruttare al meglio un ambiente da un punto di vista narrativo,
quale soluzione garantisce forza emotiva, qualità espressiva e minori spese.
Se qualcuno in Rai avesse accettato il confronto con gli autori sulla
linea editoriale della attuale fiction avremmo consigliato ad esempio di
dare minor centralità nelle scelte produttive al filone delle biografie filmate
tanto in auge, che forse garantiscono da possibili spunti critici sulla realtà
politica e sociale dell’Italia voluta da chi ci governa ma non sempre
assicurano -per via degli investimenti che si rendono necessari per un film
in costume- un buon rapporto qualità-costi. E avremmo suggerito di dare
più spazio a storie che parlano del nostro presente e dei nostri problemi,
evitando il ricorso a spettacolarità facili, spesso false e costose,
prendendoci la responsabilità di rendere il racconto altrettanto emozionante
e coinvolgente.
Il dialogo con chi siede ai piani alti di viale Mazzini però è risultato
finora impossibile non solo sui grandi temi editoriali e industriali ma
persino su elementari battaglie di civiltà come un contratto nazionale di
lavoro per registi e sceneggiatori, al punto tale che su questo fronte – anche
per la resa ai diktat della Rai da parte dei produttori televisivi-, siamo stati
costretti a cercare la via dell’autodeterminazione di alcune elementari
regole di lavoro, con un’iniziativa che abbiamo chiamato Turning Point.
In assenza di quelli che dovrebbero essere i nostri interlocutori
naturali, approfittiamo perciò dello spazio che questo giornale ci mette a
disposizione per indicare temi e proposte per un possibile confronto con
ministri e sottosegretari del governo Monti.
L’attuale strategia della Rai per la narrazione audiovisiva è a nostro
parere da ripensare dalle fondamenta, non solo perché in contraddizione
con qualunque principio di buonsenso economico ma anche e soprattutto
perché di fatto da anni agisce, a dispetto di un “Contratto di servizio”
puntualmente disatteso, in spregio di tutti i diritti fondamentali cui la sua
missione di servizio pubblico la obbligherebbe. Primo tra tutti, il diritto dei
telespettatori a un’offerta ricca, varia e di qualità adeguata, capace di
rispecchiare il paese in tutta la sua complessità. Un diritto che va
riconosciuto non a parole ma con fatti concreti.
La Rai investe in contenuti una percentuale del proprio fatturato
inferiore a quella di qualunque altro broadcaster europeo di importanza
paragonabile. Inoltre è soffocata da costi di struttura spesso ingiustificati.
Se da una parte occorre dunque ristrutturare l’azienda e aumentare la quota
destinata agli investimenti, dall’altra appare necessario fin da subito
diversificare l’impiego delle risorse. Questo significa d’ora in poi declinare
diversi tipi di racconto per diversi pubblici, articolando l’offerta produttiva
con uno sguardo a tutte le 14 reti e al portale web, non più solo a Rai 1.
Stessa cosa ovviamente dovrebbero fare Mediaset, SKY, Fox e La7 che
assieme alla RAI dispongono ormai in tutto di 118 canali, mentre gli
investimenti in narrativa audiovisiva sono concentrati di fatto solo su 3.
Va detto altresì che tutte le televisioni, generaliste e non, così come
tutte le nuove piattaforme digitali che utilizzano film, documentari, cartoni
animati e serie-tv, devono essere chiamate a contribuire al rinnovamento
del sistema audiovisivo, con quote di investimento certe. E, dal momento
che tra i diritti dello spettatore è da annoverare anche quello di poter fruire
di una narrazione di qualità, appare anche necessario dare certezza a una
quota di investimento annuale per opere innovative, capaci di sperimentare
in termini di genere, di linguaggio, di formato e di modello produttivo,
realizzate anche da nuovi autori. La creatività, la ricerca e la capacità di
innovare sono infatti l’unica grande risorsa di questa industria, una risorsa
che bene impiegata definisce e afferma la cultura e l’identità di un paese,
alimentando le esportazioni e attirando ulteriore ricchezza da investire nella
produzione.
E’ per questo che crediamo anche venuto il momento di affiancare ai
criteri di valutazione quantitativa, come l’Auditel, strumenti capaci di
garantire valutazioni qualitative attendibili e trasparenti che possano servire
da ulteriore strumento alla definizione delle linee editoriali.
Allo stesso modo, per difendere gli interessi del telespettatore e di
chi lavora, occorre dire no una volta per tutte a fiction che pretendono di
ambientare storie maremmane nelle pampas argentine, o vicende del nostro
Ottocento in vicoli e strade mitteleuropee. La genericità forzosa
dell’ambientazione, non solo danneggia la qualità espressiva del racconto,
ma provoca la perdita di occasioni di lavoro per i nostri attori, scenografi,
maestranze. Per questo, al fine di scoraggiare forme di delocalizzazione
selvaggia, ci sembra importante che nel prossimo Contratto di Servizio, per
poter accedere a un finanziamento RAI, sia previsto anche per la fiction
l’obbligo del riconoscimento di nazionalità italiana, con le stesse clausole
previste per il cinema, a salvaguardia degli artisti e dei lavoratori del nostro
paese.
Tutto questo si può. Ma perché sia davvero possibile, occorre che il
governo Monti intervenga a livello strutturale per rinnovare profondamente
la Rai attuale, cambiando il modello di governo, garantendo la sua
autonomia dai partiti, ridefinendo criteri di assoluta trasparenza nella
selezione dei dirigenti e nell’assegnazione degli appalti. Assegnando a
quanti ricoprono ruoli di responsabilità obbiettivi che siano coerenti con la
sua missione di servizio pubblico e monitorando che vengano perseguiti
con professionalità e rigore.
Noi autori siamo pronti a fare fin da subito la nostra parte ma
chiediamo al Governo nuove regole e nuovi interlocutori. Interlocutori che
ci auguriamo finalmente all’altezza di questa missione.