Una clamorosa vittoria dell’arte italica in Germania, a Berlino. Sbaragliati concorrenti d’ ogni dove da due ragazzi d’ ottanta’ anni, Paolo e Vittorio Taviani capaci di realizzare un’ opera cinematografica con l’ impellenza dello sturm und drang della gioventù… E poi il premio del pubblico tedesco ed internazionale a “Diaz-Non lavate quel sangue” di Daniele Vicari, una pagina di storia da raccontare, innocenti massacrati dalle botte della polizia del g8 di Genova per dare una lezione, con violenza inaudita gratuita e per scaricare l’adrenalina. Non pensi pero’ chi legge la notizia dell’Orso d’ oro ai Taviani con “Cesare deve morire” e a “Diaz” che questi due film lavino i panni sporchi di casa all’estero. Tutt’altro. Sono due grandi film che rappresentano bene, proprio per le difficoltà produttive che li hanno distinti, la necessita’ dell’Italia di questo momento storico di trovare la forza di ricostruirsi grazie alla capacita’ e di analizzare se stessa negli anfratti storici più bui, Diaz e nella eterna giovinezza e forza drammatica dell’arte, i Taviani. “Ragazzi era dai tempi di Italia Germania che non riportavamo una vittoria così” e’ stato il commento fatto ai Taviani da italiani emigranti felici in questi giorni a Berlino.
C’e’ poi da sfatare per il pubblico l’effetto “pippone culturale” che potrebbe accompagnare questi due titoli. Diaz e’ un film d’ azione che lascia increduli in quanto vero e legato alla realtà. E se il film dei Taviani e’ girato nella patria galera di Rebibbia con i carcerati, questo non sta a significare che siamo difronte ad un documentario sociale. Niente affatto. Il Giulio Cesare di Shakespeare si incarna, non nella meraviglia della carne di Marlon Brando, ma nell’ossimoro corporeo dei detenuti che diventano la tragedia del bardo. Uomini d’ onore (“ma Bruto non e’ uomo d’ onore) del 1600 si sovrappongono con gli uomini d’onore carcerati , fine pena mai alcuni, che dicono Shakespeare. E la tragedia loro diventa tragedia dell’umanita’. I carcerati attori come in stato di trance sono trapassati, impossessati dalla parola shakesperiana e il risultato e’ che la tragedia non appartiene a loro, ma all’umanità’ tutta. Paolo Taviani racconta le incredibili assonanze esistenziali tra l Antonio in scena e l’ Antonio che lo impersona finito dentro per omicidio di camorra. Il vero Antonio ha ucciso l’ assassino del padre, affiliato alla camorra. Sul set piange il corpo di Cesare, dittatore, imperatore, padre della repubblica? Uomo d’ onore si o no?
I carcerati cantano la tragedia nella loro lingua e nel loro dialetto. Ed e’ strano e forte e credibile grazie all’arte vedere Giulio Cesare prendersi le forme di un romano alto, grosso con la faccia del trasportatore, dell’idraulico o del pizzicagnolo sotto casa a Roma elevarsi con dignità’ e onore sino alle vette della mente dell’uomo più’ abile della storia, del grande stratega epilettico Giulio Cesare. E’ della libertà’ della repubblica romana che parla Shakespeare nel “Giulio Cesare”. Il poeta ci pone una domanda? Meglio scegliere la libertà’ dei cospiratori pro repubblica quali Bruto e Cassio o la dittatura di un illuminato quale il divo Giulio? Cosa vi e’ di più’ attuale nella situazione nostra di postdemocrazia della perennità’ di questa domanda? Che vi e’ di più sconvolgente e di meno soporifero di questi detenuti che inneggiano alla libertà’ democratica? Che la urlano da dietro le sbarre? Salvati dal teatro, dal cinema dall’arte questi detenuti ci rappresentano da una latitudine all’altra del globo. E con una forza che ci spinge alle lacrime. Un post scriptum. Ieri un detenuto di San Vittore di 21 anni si e’ impiccato in carcere. Da gennaio sono 10 i detenuti che si sono suicidati. Ma si sa “cesare deve morire”.